«Io vi porgo la gola di Patrick, voi guardateci dentro e finalmente vedrete il danno che il veleno ha fatto».
Patrick ha undici anni e muore, si uccide bevendo veleno per topi. L’io narrante del libro all’epoca è solo un adolescente, e quel gesto tanto disperato lo ha segnato, gli è entrato dentro e lì è rimasto, è diventato la continua rimasticazione di un pensiero, di una riflessione sulla presenza del male, della morte, dell’amore.
Il nuovo libro di Demetrio Paolin, Anatomia di un profeta, arriva quattro anni dopo Conforme alla gloria, romanzo che fu tra i dodici finalisti del Premio Strega di quell’anno. Non è casuale la mia scelta di chiamare uno “romanzo” e l’altro, semplicemente, “libro”. L’ho fatto perché ogni tentativo di dirlo, Anatomia di un profeta, risulta poco preciso, se non addirittura fuorviante. Non è un romanzo, non è una raccolta di racconti, non è autofiction, non è un saggio di critica letteraria, non è un libro di versi, eppure è anche tutte queste cose insieme. La natura tentacolare del testo porta il lettore a perdersi dentro quella che sembra, nel suo insieme, una grande indagine interiore, un auto-interrogatorio. Qui il confine tra verità e finzione, tra confessione e invenzione sembra farsi sottilissimo. A chi appartiene la voce del libro? La tentazione di confondere il personaggio-narratore con l’autore è forte, e Paolin è bravo a giocare con questa “confusione”, a far sì che anche questo sia uno dei livelli di interpretazione del testo, uno dei tanti. Dentro vi si trovano, citati direttamente o in forma di note al testo, tutta una serie di riferimenti che appartengono all’immaginario di chi parla – il personaggio che nel libro dice io, che forse è lo stesso Paolin e forse no, non è importante – finendo per tracciarne una mappa. Forse, ancora meglio, un ritratto.
Intanto, credo sia utile pensare il libro come incanalato in due flussi. Forse due non bastano, ma è per tentarne una semplificazione. Il primo racconta la storia di Patrick, sua e del rapporto con il narratore – l’una si riflette nell’altra; il secondo si occupa del Libro di Geremia, si pone come un’analisi critica del testo biblico, e qui si spazia da considerazioni teologiche a riflessioni narratologiche. Ho detto di due flussi, ma non si devono pensare distinti, tutt’altro, sono necessari entrambi per comporre l’immagine d’insieme del testo.
Il libro di Geremia – letto, indagato, riscritto, soprattutto amato – è la chiave che chi parla utilizza per cercare il senso della morte di Patrick. Il suicidio del ragazzino conosciuto durante l’adolescenza è il grande centro oscuro del testo, l’autore vi si avvicina e se ne allontana di continuo, ogni volta strappandone un pezzetto di verità, e insieme dandone – mi viene da dire: regalandone – un pochino anche al lettore.
Anatomia di un profeta è un testo che afferma se stesso con violenza, con quella stessa violenza con cui Patrick afferma il suo essere vivo morendo. Lo fa attraverso il suo alternare registri e forme diversi, il suo utilizzare un’impaginazione a volte stramba, saltando improvvisamente dentro un altro io che sono poi i genitori di Patrick, e qui e là prendendosi la libertà – e il coraggio – di rompere il patto di finzione con il lettore. Interi passaggi si potrebbero ritagliare e lasciare lì, a galleggiare, perfettamente compiuti, belli di una bellezza semplice e terribile. Anatomia di un profeta non si vergogna di ciò che è: un libro profondamente “altro”, ambizioso, difficile, talvolta anche disturbante. Entrarci significa essere disposti a venirne abitati, tanto durante la lettura quanto dopo, a libro ormai chiuso.
Edoardo Zambelli
Recensione al libro Anatomia di un profeta di Demetrio Paolin, Voland, 2020, pagg. 250, euro 17.