I caseggiati di Commonwealth, nella periferia di Boston, sono un Bronx di bianchi “le facce sono del bianco più bianco che tu abbia mai visto”. La storia raccontata da Dennis Lehane, sceneggiatore proprio di Boston e autore di bestseller tradotti in oltre trenta lingue (Mystic River e Shutter Island su tutti), prende spunto da un fatto veramente accaduto: il 21 giugno del 1974 un giudice accertò che l’ufficio scolastico della città aveva “sistematicamente svantaggiato le scuole pubbliche frequentate da alunni neri”. Per rimediare, il giudice stabilì che le popolazioni scolastiche della Roxbury High School e della South Boston High School si sarebbero mescolate attraverso reciproche migrazioni di studenti. La contaminazione etnica auspicata – tema in Italia dibattuto proprio nei giorni in cui è stato pubblicato il romanzo, ovvero mezzo secolo più tardi rispetto ai fatti del libro – scatenò proteste violentissime alimentando nuovo odio.
A Mary Pat Fennessy, sangue irlandese, una vita spesa tra case popolari e lutti familiari, sulla soglia dei quarant’anni le resta una sola ragione per vivere: la sua ultima figlia. Jules ha diciasette anni. Una notte esce con tre amici ma non torna più a casa. Mary Pat ha già perso un marito quando era giovanissima e il primo figlio per overdose. Mary Pat non può permettersi altri crolli, nuovi incubi, sarebbe la fine. Nella stessa notte in cui si perdono le tracce di Jules, viene assassinato in circostanze tutte da chiarire un ragazzo di colore. Si chiama Auggie Williamson. Dopo le prime indagini, sembra che i destini dei due giovani (Jules e Auggie) siano legati da un doppio filo. Mary Pat, che non è solo la protagonista assoluta del romanzo ma anche uno dei personaggi femminili migliori della storia del crime americano (mi assumo la responsabilità di quello che scrivo) capisce poco di diritti civili, la sua sopravvivenza dipende da cose tangibili: il
denaro (che non basta mai), il cibo, le bollette da pagare, un’auto vecchia e scassata che la porta ancora in giro chissà per quale miracolosa legge della meccanica. May Pat “non può avercela con la gente di colore perché vuole andarsene dal merdaio in cui si trova, ma voler venire nel merdaio in cui si trova lei non ha alcun senso”. Quel posto è solo più bianco ma non è migliore dell’altro. Piccoli atti di misericordia è una storia di fallimenti e di infelicità che non hanno colore, di uomini e donne sconfitti senza alcuna possibilità di riscatto. La guerra tra poveri messa in scena da Lehane, con dialoghi serrati che occupano gran parte del testo, è un’infamia nell’infamia. La vicenda pubblica si riflette sì in quella privata delle famiglie Fennessy e Williamson ma in modo distorto (in una delle parti più toccanti del romanzo, Mary Pat incontra i genitori di Auggie). Piccoli atti di misericordia non si può liquidare come una delle tante storie di razzismo – scritta tra l’altro da un bianco di origini irlandesi, fatto abbastanza insolito nella narrativa americana. È molto di più: un romanzo sull’essere madre, sui sensi di colpa, sul male dal quale nessuno può sentirsi immune (il detective Bobby Coyne lo sa bene, Bobby è un uomo fragile, perennemente in bilico tra l’applicazione della legge e l’umana comprensione, la misericordia). È soprattutto un romanzo sulle donne e sul coraggio delle donne. Mary Pat è tra l’Anna Magnani di Mamma Roma e l’Agnes Bain del romanzo di Douglas Stuart (Storia di Shuggie Bain), altro personaggio femminile straordinario della letteratura dei nostri tempi. Nelle ultime pagine il noir diventa thriller, il thriller dramma: corpo, cuore, sangue, vendetta, sconfitta. Ancora. Ancora. Ancora. Bellissimo.