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Di questo mondo e degli altri, di Josè Saramago

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Di questo mondo e degli altri, di Josè Saramago

Perché per Saramago a comandare è (quasi sempre) il lettore. In Di questo mondo e degli altri lo scrittore premio Nobel cantò il suo Portogallo, abbozzando un’etica della scrittura. La necessità di comprendersi con gli altri emerge come cifra di una narrativa.

Spesso l’unità più salda traspare dal frammento. Ed è la congerie a rivelare il tutto. Diversi registri, dall’elzeviro all’annotazione, compongono l’ordito proteiforme di un’opera dura a definirsi, miscela di umori, pensieri e micro novelle che Josè Saramago ha destinato a due giornali di Lisbona, A Capital’ e il Jornal do Fundaò.

Leggere Di questo mondo e degli altri è come affacciarsi nel laboratorio dell’autore accogliendo scene fantastiche, cronache, spunti ritagliati su questa gustosa e involontaria esposizione di poetica: “Non mi ritengo uno spirito forte, ma non sono neppure di quelle inquiete persone sensibili a presagi, divinazioni, brezze segrete, che vivono costantemente occupate nella decifrazione di messaggi di questa terra e di quella ventura, complicando con ciò la propria esistenza e macinando la pazienza altrui. Tuttavia si danno alle volte dei casi che dicono come la vita non sia affatto semplice e le sue strade siano così disseminate di deviazioni e trabocchetti da stupirci che non ci si perda in essa a ogni passo”.

La rappresentazione dell’ordinario nella sua trasfigurazione fantastica ha avuto molteplici interpreti accomunati dal tentativo di riqualificare l’esperienza degli uomini e conferirle senso, sottraendola al suo aspetto di neutra concatenazione di accadimenti e riscattandola dal caso cieco e insignificante.

Eppure l’illusione deve all’aleatorio la sua materia informe e la consuetudine di fatti imprevedibili squaderna un campionario di voci contraddittorie in attesa d’essere accentate dai provvisori significati della letteratura come monete d’oro recuperate dal fango.

Il caso è strano ma a pensarci bene non è più strano delle piccole cose che ci accadono ogni giorno”. E’ l’incipit di una delle narrazioni raccolte in questo testo. Vi si esprime la meraviglia di un uomo, capitato in una spiaggia gremita e consacrata al turismo di massa, per l’inusuale incontro con uno scimpanzé e l’identico stupore per l’improvviso deserto che invade, di colpo, quel lido, scenario surreale e perfetto a introdurre la bizzarria dell’inaspettato avventore. Il primate e l’umano si scrutano dapprima con diffidenza, quindi occasionano un dibattito nel quale la scimmia può, ovviamente, solo annuire.

Ciononostante basta una presenza animale perché il tono della singolare conversazione tra questi due eterogenei esseri si faccia confidenziale e il racconto del più evoluto si scopra particolareggiato, fitto d’informazioni sulla sua controversa specie.

Tutto accade mentre la folla torna a punteggiare il paesaggio marittimo e il personaggio meno irsuto si dichiara sbigottito e incredulo per la scomparsa inattesa di quella compagnia accidentale. Lo sconcerto si mescola al dubbio sulla veridicità del fatto.

Le perplessità si perdono nello sbiadire di una scritta inesperta che segna la battigia: “E’ questo essere un uomo?”. Quel quesito di verità ha il sapore d’un’assenza improvvisa, colta dal protagonista, ormai orfano del suo pulcioso uditore e dell’ episodica e gustosa condivisione tra conversatori di fortuna, atta a far nascere e morire storie.

In questa esaltazione dell’annusarsi e studiarsi reciproco di due interlocutori cosi dissimili e tuttavia vogliosi di conoscersi, sembra ravvisabile la cifra di un motivo etico ed estetico che percorre l’intero libro.

L’opera somiglia, infatti, a un resoconto immaginario farcito di cronaca, un’epica ironica del presente. Zibaldone di fantasie e verosimiglianze rese luccicanti dall’agile vitalità e naturalezza della parola scambiata, mai neutra e priva di concessioni alle involuzioni narcisistiche e metanarrative di certa autoreferenzialità postmoderna, apprezzata da multiformi egolatri, fanatici del monologo interiore.

La coralità d’ogni esperienza, tragica, comica o grottesca varietà di prospettive da saggiare e interpretare, non nasce ricalcando improbabili intuizioni totalizzanti, non corrisponde al parto d’uno spirito eletto, ma sorge dal crocicchio del quotidiano, insegue una fatale e avvolgente pluralità che è grembo d’ogni vicenda e si snoda tra memoria e attesa.

Su quel lato nulla appare più degno di pagine da immaginare della nostra comune coabitazione del globo terrestre. La poesia è imprevedibile, è pane spezzato da uomini che vogliono vivere accanto ad altri uomini. L’arrotino, il mare portoghese, la nebbia del mattino, assumono, con lo scrittore lusitano, la grazia e la dignità d’avventure memorabili perché impresse nei giorni di chi le (con)vive.

Si mira al nucleo di ciò che Andrè Malraux, scrittore ed ex ministro francese, battezzò “la fatica di dirsi uomini”, ovvero l’impegno di “approfondire l’appartenenza ai destini dei propri simili” per accorgersi che “comunione e differenza sono indissolubilmente fuse, nutrono entrambe ciò per cui un essere umano ama, pensa, si concepisce.”

Saramago avrebbe sottoscritto. Infatti, al termine delle sue riflessioni, si dice piacevolmente costretto, perché esse vengano prese sul serio, a una dichiarazione di dipendenza dal lettore.

Recensione di Fabrizio Baleani a Di questo mondo e degli altri, di Josè Samarago, Feltrinelli, 2013, euro 9.50.

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