Quello che mi ha tormentato da giovane è stato il complesso di superiorità, a cui seguiva il danno provocato dall’autoumiliazione, ovvero l’autocompiacimento distruttivo; è inutile negare il sollievo che ci deriva dall’umiliare se stessi. Sappiamo che ci stiamo liberando del peso del macigno quando nuovi o vecchi Sisifo lasciamo rotolare a valle la pietra dell’umiliazione di sé, lasciare andare quel peso significa, per come la vedo io, parlo per me, ovvio, mica sono così scemo da parlare per gli altri, autoumiliarsi anzi è proprio non voler essere come gli altri, liberarsi della soffocante e trionfante stupidità altrui, soprattutto della classe dei colti, quelli che si preoccupano di rispettare la loro maschera, il loro ridicolo ruolo, insomma quelli che “sfoggiano” direbbe il mio fraterno amico Damiano Abeni. Bisogna disertare l’infimo obbligo di sforzarci di somigliare agli altri, soprattutto a quelli che simulano l’intelligenza, invece preferisco sembrare uno di quelli che Sciascia in “Nero su nero” invocava: Oh i bei cretini di una volta!
Perché aveva ragione il vecchio siciliano, è da tempo molto difficile incontrare un cretino che non sia intelligente e un intelligente che non sia un cretino. La malinconia ci assale quando ci imbattiamo in cretini sofisticati che citano Nietzsche o evocano il biopotere in Foucault senza capire di cosa stanno parlando, basta citare, l’orpello, il fiorellino all’occhiello.
Salutare è rileggere le “Memorie del sottosuolo” di Dostoevskij, rileggere Leopardi a salti e finalmente sperare che Susanna Mati scriva e descriva tutti i debiti di Nietzsche nei confronti dei sullodati. W TUTTO!