Chi può de-estinguere il rinoceronte bianco, il lupo del Giappone, il dodo, il tilacino? Chi può far rivivere la magafauna infragilita da un antico surriscaldamento globale e poi cancellata dall’uomo? Forse solo gli scrittori, come ci suggeriscono Gli animali che amiamo di Antoine Volodine. Ma prima di pensare a una qualche clonazione fantastica nel laboratorio delle parole, bisognerebbe imparare a fare lutto, a piangere sul latte versato, perché inutile non è. L’Isola delle ombre (2021) di Davide Calì e Claudia Palmarucci è una storia che raccoglie sogni, fantasmi e tilacini, e che riusa l’Isola dei Morti di Böcklin per collocare in un altrove simbolico gli spiriti degli animali estinti. Basta guardare agli ultimi anni di riflessione culturale su collasso e senso della fine per rendersi conto che onirismo, animalità, spettralità, estinzione e perturbanti isole simboliche (la Krev di La metà di bosco di Laura Pugno, Helgoland di Carlo Rovelli) sono ingredienti ormai irrinunciabili del minestrone antropocenico. Nell’albo di Calì e Palmarucci ci sono però due voci che non si mescolano mai. Da un lato un testo che esprime l’ansia del presente attraverso un mucchio di detriti narrativi, con una voce fuori campo che parla a tutti e a nessuno. Dall’altro ci sono immagini che quell’ansia tentano di lenirla, con una bellezza visuale che non è seduzione estetica ma massaggio del colore e delle forme sulle ferite animali. Ora, se mai abbiamo lasciato in piedi un ponte intergenerazionale, scrivere per bambine, bambini e genitori nell’Antropocene è più complesso che scrivere romanzi. Montare iconotesti efficaci, dove parola e immagine siano davvero il piede sinistro e il piede destro di un unico corpo in movimento, è invece quasi impossibile. Forse ci sono riusciti Amitav Ghosh e Salman Toor con Jungle Nama (2021), una ballata antropocenica che ha aperto nuove possibilità alla poesia del collasso, ma certamente mancano ancora libri illustrati che mostrino ai più giovani l’abisso dell’irreparabile. Con L’isola delle ombre non si piange, non si cerca, non si spera, ma si entra grazie alle immagini in una sospensione onirica che attenua gli antropomorfismi narrativi e che propizia l’essenziale, cioè l’incontro con gli spettri. Immaginiamo allora di mostrare queste pagine a una persona troppo giovane per leggere, dicendo solo che moltissimi animali non ci saranno mai più: quale sarà, a partire dai disegni, la storia immaginata da un cervello così diverso da quello adulto? Che cosa potrebbe insegnarci di potente sul non-ritorno? Intanto dobbiamo metterci al lavoro.