I libri hanno bisogno di etichette per essere venduti. Le etichette sono buone ma non bastano e i libri purtroppo, o per fortuna, non vendono. Poi arrivano libri che vendono o viaggiano davvero e le etichette si staccano dal testo come la pelle di un serpente e, sotto la pelle, a volte, c’è un oggetto alieno. Quando questo accade è come incontrare un canarino da miniera, quelli che prima di macchinari sensibili servivano a rilevare il grisou, un gas inodore ma esplosivo come l’inferno. L’Antropocene è questo: una sostanza insidiosa venuta dal futuro, che sta per uccidere ma che sfugge alla nostra percezione, un predatore di guerra che possiamo avvistare solo per tracce e indizi. Certi libri, allora, sono proprio queste tracce, come L’hotel di cristallo di Emily St. John Mandel. Un thriller? Un romanzo sull’avidità e sul senso della vita? Più esattamente un romanzo dell’Antropocene. Perché l’Antropocene non è solo distopia o eco-fantascienza aggiornata un po’ in fretta sul climate change, ma è il contenitore di tutti i tentativi affannosi di intercettare una nuova ansia di specie, uno sgomento paralizzante di fronte al Collasso, quello con la maiuscola. Noi non siamo i protagonisti del romanzo, Vincent e Alkaitis, ma Vincent e Alkaitis sono già noi tra qualche anno, o tra qualche ora. E L’hotel di cristallo, raccontando di un collasso sociale e individuale multiplo, attraverso una catena di immagini quotidiane del fallimento racconta il Grande Fallimento che ci attende, quello dell’Occidente neoliberista, un vecchio edificio luccicante pieno di fessure in cui striscia letale il grisou. Ora, il canarino da miniera sta piegando la testa nei romanzi di alcuni scrittori, in alcuni film, nelle serie TV, in arte, nel teatro, nella musica, nei fumetti, un po’ ovunque. Così ecco i Dispacci dall’Antropocene: una raccolta di reperti anomali per raccontare la nascita di un immaginario, i frammenti di una mappa in fiamme, una via che si apre.
Matteo Meschiari