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Distanze obliterate. Generazioni di poesie sulla Rete. Intervista ad Alessandra Corbetta

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È un progetto coraggioso quanto rischioso quello che gli autori del blog Alma Poesia hanno messo in piedi e che da pochi mesi vede forma antologica rintracciabile in libreria e in vari store digitali. Non si può definire in altro modo Distanze obliterate (puntoacapo editrice), che cerca di scandagliare in che modo il Web abbia cambiato la produzione della poesia e la percezione del mezzo stesso in vari autori prelevati da generazioni fra loro ben distinte per approccio al mezzo. L’antologia si divide così in cinque sezioni, che si muovono di decennio in decennio: dal 1940 al 1999. All’interno trovano spazio i testi di 63 autori, che hanno risposto alla call sul tema e sono stati selezionati su un totale di 135 candidature.

Alle sezioni, ne viene fatta precedere una di “omaggi”, dove si antologizzano 23 autori che Alma Poesia ritiene importanti per la nostra poesia contemporanea e che, racchiusi nell’arco temporale 1938-1976 (da Tomaso Kemeny a Cristiano Poletti), riescono a fare da apripista e da summa a quanto viene successivamente proposto.

Il rapporto con la Rete è sempre e comunque il tema principale dei testi raccolti in Distanze obliterate. Rapporto che permette al lettore di avere un notevole spaccato evolutivo (ma anche contrastivo) del come la poesia italiana si sia andata relazionando nel tempo con questa nuova modalità comunicativa. Che è estremamente fluida, e in cui si è oramai immersi completamente.

Ne abbiamo parlato con Alessandra Corbetta, fondatrice di Alma Poesia e fra i curatori del progetto antologico.

L’antologia Distanze obliterate che lei e altri di Alma Poesia avete curato, mi sembra punti a comprendere non solo a livello sociale, come i poeti percepiscono la Rete più che come essa venga usata per autopromuoversi. Nasce anche da questo il progetto?

L’idea-motore è stata quella di osservare i cambiamenti indotti dalla rivoluzione digitale, e quindi dalla Rete, nella maniera più ampia possibile, includendo gli effetti del mediashock sul linguaggio, sul modo di intendere le relazioni, sul senso dell’identità, il peso del frapporsi dello schermo tra noi e gli altri, il mutamento della percezione del tempo e dello spazio, i pericoli e le opportunità offerti dall’online e tutto ciò che, in senso lato, inerisce al Web.

Questo perché, troppo spesso, la questione poesia/Rete e, più in generale, poesia/letteratura è stata schiacciata tra sterili posizioni dicotomiche, riassumibili in “la Rete ha rovinato la poesia” o “la Rete salverà la poesia”. Posizioni che non hanno minimamente tenuto conto della complessità strutturale della Rete come della poesia. Soprattutto, non hanno tenuto conto della società attuale, che entrambe ingloba.

Provare ad analizzare le correlazioni e le reciproche influenze significa andare ben oltre i discorsi intorno all’autopromozione o al narcisismo digitale che, pur essendo a tutti gli effetti elementi del dibattito, sicuramente non lo esauriscono né lo spiegano nella sua totalità.

A fare da spinta a questo progetto c’è stata poi la volontà di inquadrare il fenomeno da una prospettiva transgenerazionale, nella convinzione che i gruppi generazionali non siano compartimenti stagni ma vasi comunicanti in perenne scambio tra loro, capaci di darci, se studiati opportunamente, informazioni assai rilevanti per l’analisi in questione.

A suo avviso, per quello che ha potuto evincere dai contributi, quanto la Rete ha cambiato il modo di produrre poesia nelle generazioni e quanto è mutato l’approccio delle generazioni di autori all’uso della Rete…

Tenendo conto che il nostro volume comprende testi di autrici e autori nati tra il 1940 e il 1999, avevamo previsto che avremmo trovato un modo di raccontare la Rete in versi assai diverso tra le diverse fasce anagrafiche. Così è stato. Per questo abbiamo voluto accompagnare ogni gruppo con un commento critico, in modo da offrire fin da subito al lettore una sintesi analitica dei tratti distintivi dello scrivere di tutte le fasce anagrafiche incluse che abbiamo messo a confronto successivamente nella postfazione.

Tra i vari elementi emersi, anticipo qui uno di quelli più significativi e cioè l’affievolimento di quel senso di nostalgia – da intendersi nella definizione fornita da Emiliano Morreale, passando dalle fasce più mature a quelle più giovani – nei confronti del mondo pre Rete. Sentimento che nel gruppo 1990-1999 è totalmente assente, poiché di quell’universo non si ha esperienza o memoria.

La mancanza di qualcosa che si sa non potrà più tornare nello stesso modo e nella stessa forma, lascia progressivamente spazio a uno slancio verso il dopo, verso un momento successivo. Sono due movimenti opposti nel tempo e nello spazio eppure mossi da un comune desiderio, che è quello di abolire la frammentazione, ricomporre l’intero. E questo, considerando il lasso dei sessant’anni che intercorrono tra l’una e l’altra spinta, credo sia straordinario.

Vivere sulla Rete, ma anche con e della Rete, è oggi assolutamente necessario per chi voglia lavorare nel campo della poesia? Non si può assolutamente prescindere da essa? In un certo qual modo, è necessario subirla?

Come sappiamo, il termine “poesia” deriva dal greco ποιέω che significa “produrre”, “fare”, ma nel senso designato dalla radice sanscrita pu, ovvero creare. La poesia rimanda perciò, fin dalla sua etimologia, a qualcosa che viene prima del concreto, a una generazione innanzitutto prolifera nell’universo dell’idea.

Questo per dire che la poesia non ha bisogno della Rete né per essere realizzata, né per esistere una volta fattasi parola scritta. Ciò di cui la poesia oggi può difficilmente fare a meno è, invece, la comunicazione della poesia stessa, e tale comunicazione, volenti o nolenti, passa prima di tutto dalla Rete. Dal sapere dove si terrà un evento poetico, alla notizia dell’uscita di una nuova raccolta, fino ai numerosi incontri online che la realtà pandemica ha accelerato in termini di realizzazione e di frequenza.

Stare fuori da questi meccanismi significa privarsi e privare la poesia di un importante medium che, come tutti gli altri, è senz’altro ricco di insidie e di problematiche, ma è anche foriero di occasioni e opportunità.

Come ricordava sovente il mio professore di dottorato «Guns don’t kill people. People kill people». Per dire che, alla fine, siamo noi a decidere come e cosa fare con la Rete.

Perciò?

Il primo passo è provare a conoscerla davvero, il secondo imparare a usarla cum grano salis, il terzo uscire da meccanismi anacronistici di rimpianto di un’epoca ante-Rete che, comunque, non potrà più tornare. Per tutti questi motivi nessuno è destinato a subirla, anzi: l’invito, anche in riferimento alle dinamiche poetiche, è proprio quello di muoversi in senso contrario e cioè di tornare a essere soggetti attivi in grado di autodirezionarsi e utilizzare al meglio gli strumenti digitali.

Nella call che avete attivato, vi siete fermati sulla soglia del nuovo millennio, avete cioè tralasciato la generazione di chi oggi ha venti anni, quella a cui appartengono autori appena “postpuberali”, ma pur sempre attivi. Per quale ragione?

Non è propriamente corretto che abbiamo tralasciato quella generazione. Nel momento di uscita del bando, la nostra call è stata aperta a chiunque avesse compiuto il diciottesimo anno di età. Essendoci però stato un importante lavoro di selezione a seguito degli invii, è capitato che la più giovane autrice scelta fosse del 1999. L’esclusione, invece, dei minorenni è legata a questioni burocratiche (consenso dei genitori, privacy ecc.) e alla volontà di provare a confrontarci con forme di scrittura tendenzialmente più consapevoli.

Parlando invece di numeri. La call ha visto 135 partecipanti e 61 selezionati. Qual è stato l’elemento di criticità, il discrimine, che avete riscontrato con maggiore frequenza e quali i motivi che vi hanno portato a scartare circa la metà degli invii?

Abbiamo svolto un accurato lavoro di selezione poiché partire da testi di buon livello ci è sembrata una condizione imprescindibile per poter avviare un dibattito così importante.

Ciascuno dei dieci membri di Alma Poesia ha valutato singolarmente tutto il materiale arrivato assegnandoli, dopo diverse letture e riletture, un punteggio. Attraverso una griglia abbiamo stabilito, sommando i voti di ciascuno, chi fosse dentro e chi fosse fuori e per i casi al limite della soglia ci siamo ulteriormente confrontati.

In linea generale posso dirle che abbiamo scartato chi, paradossale ma vero, ha inviato componimenti assolutamente fuori tema. Per gli altri abbiamo cercato di mettere da parte il nostro gusto personale facendo prevalere l’obiettività di quello che, secondo una serie di parametri, può essere ritenuto un buon testo e, di cosa sia un buon testo, si potrebbe scrivere e discutere per anni.

Questo per dire che siamo consci di avere operato una scelta che, come tale, è ovviamente opinabile, ma cercando di farla nel modo più onesto e scrupoloso possibile.

Per quanto riguarda gli “omaggi”. Come avete selezionato gli autori, su quali motivazioni? Altra cosa, siete partiti da una base più vasta di nomi?

Le autrici e gli autori degli omaggi, figure affermate all’interno del panorama poetico italiano contemporaneo che abbiamo voluto interpellare per godere del loro importante punto di osservazione sulla questione, sono stati scelti sulla base di un dialogo già avviato oltre che per la grande stima nei confronti del loro lavoro.

Questo significa che non ci sia stima o ammirazione nei confronti anche di altre poetesse e poeti che qui mancano? Certo che no, ma alcuni hanno declinato l’invito perché non avevano testi sull’argomento oggetto di indagine, mentre altri non sono stati contattati perché, purtroppo, in lavori di questo tipo, esistono limiti di tempo, di pagine, ecc. e quindi non è possibile includere tutti coloro che si apprezzano.

Nelle sezioni di cui è composta l’antologia Rete e Corpo passano da elementi distinti e distintivi a intrecciarsi fittamente fra loro. Diventano quasi indistinguibili, intercambiabili: il pensiero si è fatto macchina restando pur sempre pensiero. Questa fluidità è un bene o un male per chi scrive poesia? Fermo restando che l’uso assiduo della Rete pare spingere verso una qualche forma di superficialità.

La ringrazio molto per questa domanda che tocca un punto nevralgico non solo del volume ma anche della questione Rete tout-court, cioè il rapporto tra gli strumenti tecnologici e il corpo. Molta della poesia più recente si avvale spesso dell’elemento corporale per poi parlare d’altro: il corpo, in altri termini, si fa tramite comunicativo e capro espiatorio, strumento di cui servirsi per affrontare problemi più complessi relativi alla sfera personale, familiare, sociale o cosmologica.

Facilmente sottoponibile al gioco parti/intero, il corpo diviene un micromondo sul quale il soggetto crede di potere avere ancora una qualche influenza, un qualche potere decisionale, come testimoniano, per esempio, le numerose e varie pratiche di body modification a cui continuamente si ricorre.

Mentre la realtà si fa sempre più inafferrabile, il corpo-macchina sembra mettersi al nostro servizio in un meccanismo che, alla lunga, si rivela illusorio e frustrante – come bene ha analizzato, tra gli altri, Vittorino Andreoli – e che determina, come lei ha giustamente evidenziato, una fluidità quasi indistinguibile con lo strumento artificiale.

Le autrici e gli autori di Distanze obliterate sembrano esserne ben consapevoli poiché, nei loro versi, il corpo nella sua interezza o nelle singole parti che lo compongono è grande protagonista, in un intento che, però, non è mai superficiale ma sempre indirizzato a riafferrare la profondità delle cose.

AAVV, Distanze obliterate. Generazioni di poesie sulla Rete, puntoacapo editrice 2021, pagg. 243, € 25

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