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Dominique Barbèris. Una maniera d’amare

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Douala, in Camerun, colonia sotto il mandato francese: […] qui la notte alle due è calda come alle sei del mattino e ha quell’odore di spezie, di estuario e di marcio che non si trova da nessun’ altra parte; la stagione delle piogge è l’unico momento in cui si può vedere il cielo, dove le stelle ingrandite e sfocate tremano altissime nella nebbia umida, come se non fossero altro che la proiezione nell’atmosfera delle lucine sparse che si vedono all’orizzonte del ponte, sull’altra riva, a Bonabèri […] .

A bordo del Mangin che salpava alla volta di quelle colonie africane, c’erano dipendenti dell’amministrazione pubblica, medici, commercianti. Forse sarebbe stata l’avventura della loro vita. Per la zia della narratrice, Madelaine, cresciuta nel dopoguerra in una monotona provincia della Bretagna, sarà una possibile svolta esistenziale nata da un incontro inaspettato. Esperienza che non sarà mai portata a compimento ma che la aiuterà a conoscere una parte di sé, con le sue smarginature, le sue ibride dissonanze.

La protagonista di questo romanzo, vincitore del Grand Prix de l’Académie Française e del Prix Goncourt des Lycéens – Italia, è una donna dal fascino gelido, dall’aspetto distinto, dall’indole chiusa e riservata. Quando si accorge che zitta zitta la sua giovinezza se ne andava, sceglie il rassicurante matrimonio con Guy, uomo energico ed affidabile, giungendo nel 1958 nella rumorosa Douala. Bianchi edifici circondati da logge con colonnette, terrazze illuminate da lampade a petrolio, una vegetazione rigogliosa costituita da grovigli e intrecci d’alberi di cocco, avocado, mango sono solo alcuni elementi di un paesaggio che ha qualcosa di fatale, che si lega al respiro ,assorbe l’intera esperienza del momento. Le sere si accompagnano ad acquazzoni che portano nugoli di zanzare. e grosse falene. Ambasciatori ed amministratori coloniali formano qui un’élite aristocratica, una piccola comunità europea, una microsocietà diversa ed estranea agli abitanti del luogo, che si ritrova durante i ricevimenti della Delegazione, affollati di militari e personalità di spicco: membri del governo africano con le consorti, il presidente del tribunale, gli amministratori civili, i magistrati, i presidenti di società finanziarie. Non manca nemmeno lo scrittore del momento, Ferdinando Oyono. Talvolta arriva anche il principe Douala Belle che cerca di mantenere buoni rapporti con la “tutela” francese. Tuttavia, il clima è teso. Madeleine, poco entusiasta e spesso a disagio in quell’ambiente, scrive ai suoi parenti lettere che accennano a quell’ atmosfera di tensione e paura generalizzate. De Gaulle, in un discorso pronunciato nell’agosto del 1958 a Dakar aveva detto: Se vogliono l’indipendenza a modo loro, che se la prendano, ma se non se la prendono, allora facciano quello che gli propone la Francia […] noi chiediamo che dicano sì o che ci dicano no.

La storia ci dirà che la Francia, nel luglio del ‘55, pose fuorilegge il più radicale dei partiti politici, l’Unione delle Popolazioni del Camerun (UPC) e ciò avrebbe portato ad una lunga guerriglia e all’assassinio di ben due leader del partito.

La penna di Dominique Barbéris ci restituisce le atmosfere storiche ma soprattutto il fascino dei luoghi che diventano l’epicentro, il piano convergente dei ricordi […]Le piogge di quel paese avevano un non so che di fatale, di anestetizzante; si ascoltava all’infinito la terra rossa assorbirle; le si ascoltava ammaccare le foglie grasse degli avocado, dei crescentia, sferzare in lontananza il quartiere africano, i magazzini, le gru per il carico e lo scarico delle navi ormeggiate, il Wouri e la baia[…].

La narratrice interroga qualsiasi frammento che sia in grado di restituire la fragile ed incerta materia dei sogni di una ragazza di provincia, soprattutto lettere e foto minuscole in bianco e nero, ingiallite, da cui si intuisce il caldo, l’umidità, l’odore di cenere e legna bagnata. Una storia mai raccontata si cela tra i bordi seghettati delle vecchie fotografie; il messaggio fotografico afferma ai suoi occhi l’esistenza di ciò che rappresenta (il “ciò che è stato”, come diceva Barthes) ma non dice niente sul significato di questa rappresentazione che resta enigmatica, tutta da scoprire attraverso l’abilità descrittiva di Barbèris, la sua narrazione stilisticamente raffinata, resa dall’ottima traduzione di Paolo Bellomo e Luca Bondioli. L’avvolgente disporsi di frammenti di immagini-memoria, assume una duplice dimensione: da un canto, la linea di un affresco (i ritmi lenti della vita a Douala, le descrizioni paesaggistiche, i lievi accenni al clima politico, articolati in un sapiente dosaggio), dall’altro, l’insidia trapelante del tradimento, l’implosione dei sentimenti trattenuti nella cruciale latitudine di un crepuscolo, di un crocevia. È un percorso segreto, quello di un io che cerca di riconoscersi in una traiettoria ambigua, in un’inaspettata forma di agnizione. Il dominio del racconto non consiste nella perfetta ricostruzione di una vicenda, ma in una tensione riflessiva che tiene morbidamente legati stati d’animo, scandagliando il silenzio, le intermittenze del sogno, gli umori scomposti della vita.

Ciò che le foto non rivelano, insieme a corrispondenze e ritagli di giornale, costituiscono elementi di un puzzle narrativo che l’autrice è capace di restituire in un tessuto omogeneo, senza squilibri, compattando piccoli avvenimenti, fondendoli con la massima trasparenza ed eleganza lessicale.

In un’ininterrotta interlineatura, una colonna sonora accompagna con le parole di celebri canzoni di Guy Beart, Patachou, Andrè Claveau, Jacques Brel o Dalida, le filigrane emozionali, portandovi il soffio leggero di quelle note che accompagnano le nostre inquietudini e sono spesso veicolo di balenanti regressioni nella nostra giovinezza.

Al contrario della musica, le voci di violenza che attraversano Douala sembrano non riuscire a penetrare nemmeno le alte mura delle residenze dei colonizzatori e serpeggiare nei loro sontuosi ricevimenti. Una sera, Yves Prigent, brillante ed affascinante diplomatico ed avventuriero, entrerà per caso nella vita di Madeleine. Da quel momento l’esistenza di quella donna provinciale dal fascino malinconico entrerà in una leggera ma vertiginosa pendenza, in una corrente ascensionale. Un’impennata, un volo, coagulato in frasi essenziali, in ombre indecise che si allungano e distendono il gioco pericoloso del destino. Incontri che possono colmare vuoti, vincere la monotonia esistenziale di una ragazza del dopoguerra, semplice, che dissimula i sentimenti dietro un sorriso inalterabile […]Non si davano appuntamento; era un tacito accordo: lei arrivava; lui la chiamava da lontano, si accendeva con calma la sua solita sigaretta […] si incamminavano su rue du Vingt-Sept-Aout in direzione del porto[…]. Quel delicato volo di sentimenti sarà destinato a schiantarsi come una pietra nella foresta. Resterà solo un nome negli archivi dell’aeronautica. Resterà la carcassa di una vita simile a quella dell’aeromobile ritrovato ai piedi del monte Koupè. Madelaine tornerà in Francia, sfinita e sperduta dopo il fatale incidente che vede disintegrare le sue illusioni.

La scrittura di Barbèris rassomiglia a un gesto che ha fatto a lungo parte delle nostre vite (o per meglio dire, della mia), come quello di togliere accuratamente le impronte dei polpastrelli dai vinili con quelle belle spazzole di velluto rosse o blu, risuona come un’antica canzone dalla leggera atmosfera tonale, è intrisa di odori d’infanzia incardinati prepotentemente nei sensi, nostalgicamente ricercati nei più insignificanti gesti dell’esistenza. Puoi dimenticare tre quarti della tua vita ma non dimenticherai mai la consistenza tattile di un vestito, il suono ripetitivo e perentorio delle mille raccomandazioni che hanno accompagnato la tua infanzia (Vi consumate gli occhi, finirete con gli occhiali a forza di leggere così, al buio!). A rendere gradevole e distesa la lettura di questo romanzo è proprio quel nostalgico gusto di cose perdute, filtrato da un sapiente dosaggio narrativo di grumi amari (l’agguato che si cela dietro l’apparenza di una vita che scorre su rassicuranti binari, l’intrigo e l’incubo che possono aprirsi all’improvviso). Il fascino della scrittura di Dominique Barbèris è alchemico nel suo svelare discreto, accompagnato da fruscìi di alberi, rumori di pioggia martellante, strascichi di luce metallica che approdano, con i loro suoni e colori vivaci o crepuscolari, ad un periodare attento, asciutto. Immersa nel suo canto nostalgico, la sua scrittura è una vertigine che cresce come la luna che sale da un estuario. Eleganza, chiarezza e sobrietà sono impronte di uno stile che prima di tutto è nella personalità della scrittrice.

Nel cuore del libro si sovrappongono strati di temporalità: nulla in quelle foto segna il passaggio del tempo o quello delle stagioni: sembra essere sempre la stessa estate soffocante e sovrastata da un cielo grigio, dall’afa, dal clima estenuante che si riflette nelle pozzanghere dell’ultimo acquazzone, nello specchio di un’epoca, di uno squisito costume di vita.

L’autrice ci fa sentire lo slittamento del tempo e prova a restituirlo con una scrittura che segue il ritmo delle irrealizzabili illusioni, il respiro di una terra che aspira all’indipendenza, i ritmi del piccolo ambiente degli espatriati , la delicatezza di una stagione perduta che si rifugia in una chiocciola con le sue voci entrate stabilmente nel cuore, come una bella canzone.

Rossella Nicolò

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