Quattro anni fa avevo scritto questo, ma non sapevo perché, oggi sì, e lo riscrivo.
Erano forse “spontanee” Emily Brontë, Emily Dickinson, Marina Cvetaeva, Sylvia Plath, Anne Sexton, Amelia Rosselli?
Donne extraordinarie che si sono date la morte (o si sono sottratte alla vita). Come scriveva Antonia Pozzi in un testo del 1935, “Per troppa vita che ho nel sangue…”. Fu Amelia Rosselli [fotografata magistralmente da Dino Ignani] a donarmi nel 1977 (per sempre, ma sempre cosa significa?) quel verso di Marina Cvetaeva che rimane per me uno stemma, un’indicazione per la vita. Amelia era magrissima e sembrava sfinita, aveva invece un’agilità di giovane scimmia, aveva 47 anni e io venti. Amelia non camminava, marciava, facevo fatica a seguirla e stare attento a non perdere il filo tormentato del suo discorso, anzi dei molteplici discorsi intrecciati, insomma dopo ore le chiesi per frenarla: Dove stiamo andando?
Lei si fermò con uno scatto meccanico. E mi guardò con severità simulata, un debolissimo sorriso, le labbra così segnate, gonfie e secche e (mi) e si ripeteva quel verso di Cvetaeva:
La mia strada non passa vicino alla casa di nessuno.