Dorando Pietri nacque a Correggio il 16 ottobre 1885, figlio di una famiglia di contadini. Nel 1897 il padre lasciò i campi per aprire un negozio di frutta e verdura nella vicina Carpi. Dorando era un uomo minuto, basso di statura, garzone di una pasticceria che amava andare in bicicletta finché scoprì l’atletica per caso, partecipando a una gara podistica in tuta da lavoro.
Il 1908 era l’anno dei Giochi olimpici di Londra e lui fece parte della nazionale italiana senza alcuna notorietà, nessuno ne aveva mai sentito parlare, un perfetto sconosciuto insomma.
La maratona olimpica era in programma il 24 luglio. Per la prima volta nella storia delle Olimpiadi il percorso si snodava su 42,195 km. La linea di partenza, allestita davanti al Castello di Windsor, vedeva la partecipazione di 56 atleti tra cui due italiani: Dorando Pietri, in maglietta bianca e calzoncini rossi, e Umberto Blasi. Cruciale per la gara, come si vedrà, fu il caldo torrido, inusuale per Londra, che stravolse l’intero corso della competizione.
Alle 14:33 la principessa del Galles dà il via alla gara. Il plotone si sposta in avanti come un corpo solo, alla sua testa inglesi, americani, francesi e tedeschi. La squadra britannica si porta alla testa della corsa dopo qualche chilometro, l’andatura è subito sostenuta, quasi sconsiderata, se si tiene in conto il caldo opprimente. Gli atleti bevono regolarmente l’acqua nei punti di rifornimento, si rischia la disidratazione.
Pietri mantiene un ritmo moderato, corre defilato quasi a ridosso delle retrovie. I cronisti dell’epoca lo danno per spacciato, quando a metà del percorso Dorando impone la sua progressione micidiale. Sorpassa frotte di corridori, è in uno stato di grazia, eretto, il petto in fuori, respiro regolare, i suoi tempi per chilometro lo indicano il più veloce tra i contendenti, il suo ritmo si fa via via più micidiale, sa che deve recuperare. Gli italiani presenti per le strade esultano. Al 32º km Pietri, col suo numero 19 sul petto, è già in seconda posizione dietro il sudafricano Charles Hefferon, quattro minuti di ritardo lo separano da lui. Lo raggiunge al 39º km, a tre dal traguardo. Si parlano, lui con un inglese stentato gli chiede se è in grado di andare più forte, l’altro replica che no, non può, si salutano. Subito Pietri impone un’accelerazione che lascia indietro il suo avversario. Il ritmo è ora forsennato, il suo allenatore in bicicletta gli chiede di non esagerare, di rifornirsi di acqua appena può, ma lui si sente in uno stato di grazia, l’espressione rileva tutta la sua felicità karmica, vola, il pubblico assiepato lungo la strada che conduce allo stadio applaude e lo acclama. Lui pare rida, coi suoi baffi a manubrio, lo sguardo trasognato come quello di un bambino felice. Pensa al padre, al suo orgoglio quando saprà che il figlio sarà sulla cima dell’Olimpo.
A due chilometri dall’arrivo succede qualcosa, come una vela troppo orzata che si strappi al vento e debordi straziata in coperta. Questo il senso di lacerazione, così inizia la crisi. Pietri paga duramente sia la lunga rimonta sia il caldo ora atroce. L’aria è così satura di vapore da farlo annaspare in cerca di ossigeno, va in crisi aerobica, i muscoli si stanno riempendo di acido lattico, i legamenti si infiammano, la mente si confonde, ci vede doppio, sa che succederà, sarà un calvario, la delusione lo assale. Dio, Dio, aiutami, sospira, sebbene non sia credente. Si volta, scopre che ha ancora un vantaggio considerevole sull’inseguitore, scopre che è un americano, sa che potrebbe perdere la gara.
Arrivato in dirittura dello stadio, sbaglia strada, deve tornare indietro su indicazione dei giudici che non capisce, ma loro gli sbarrano la via con le braccia allargate, gli indicano la via giusta. Lui torna indietro bestemmiando, ora alla fatica fisica si aggiunge quella celebrale, gli sembra di stare dentro un labirinto. Poi il crollo. Esausto cade di schianto, ansimante, distrutto, cerca di rialzarsi ma le gambe non gli rispondono, si ritrova a terra seduto a piangere, col sudore che gli cola sugli occhi, infiammandoli.
È a questo punto che due giudici di gara, commossi dal dramma, lo rialzano per le ascelle. Pietri si fa sollevare, si rialza, fatica a reggersi in piedi da solo, brancola, non sa dove andare, dimentica persino che è la gara della vita. Le braccia cercano un sostegno invisibile, la crisi aerobica gli ha bloccato i muscoli, la caduta gli ha provocato un dolore atroce all’inguine, forse gli è uscita un’ernia, è atroce il male. Sa che è finito, sa che il sogno di vincere l’Olimpiade è naufragato. Non può arrivare al traguardo. Piange mentre arranca. È una pena vederlo. Fa il suo ingresso nello stadio, è l’emblema della prostrazione. Il pubblico rimane senza fiato.
Ad appena 500 m dal traguardo, con gli oltre 75000 spettatori dello stadio che ora lo applaudono e incitano senza sosta, Pietri percorre questa distanza in un tempo infinito. Con le spalle all’indietro, claudicante, arranca come un granchio, di sghimbescio, tanto la gamba sinistra è ormai fuori uso, la faccia è stravolta dal dolore troppo acuto all’inguine. Come incredulo percorre gli ultimi 500 m, non capisce il giubilo della folla, sospetta che sia per un altro. Cade, un giudice di gara e un medico dello staff lo soccorrono per ben quattro volte, ad ogni sua caduta.
Per percorrere i 500 m finali Pietri ci impiega 10 minuti, un’odissea davanti a un pubblico inorridito e commosso da quel piccolo italiano tutto baffi e capelli, un pubblico che unanime però lo incoraggia in una bolgia pazzesca. Al traguardo Pietri perde i sensi e crolla sulla pista. È portato in trionfo in barella, nel tripudio della folla che lui non può sentire, senza che lui possa gioire di quell’ordalia straordinaria.
Poco dopo taglia il traguardo lo statunitense Johnny Hayes. La squadra americana presenta reclamo per l’aiuto ricevuto da Pietri, che è purtroppo accolto.
Pietri venne squalificato, ma il dramma commosse tutti gli inglesi e fece il giro del mondo. La regina Alessandra lo premiò giorni dopo con una coppa d’argento. Il premio fu suggerito dello scrittore Arthur Conan Doyle, che aveva assistito alla gara dalla tribuna come corrispondente del Daily Mail. L’autore di Sherlock Holmes commentò l’impresa di Pietri il giorno stesso, con queste parole: «La grande impresa dell’italiano non potrà mai essere cancellata dagli archivi dello sport, qualunque possa essere la decisione dei giudici».
Successivamente lo stesso Conan Doyle, tramite una sottoscrizione pubblica del Daily Mail, propose di conferire a Pietri un premio in denaro, così da permettergli l’apertura di una panetteria, una volta rientrato a Carpi. La proposta ebbe successo e vennero raccolte trecento sterline, una cifra consistente per l’epoca.
Il 25 novembre 1908, al Madison Square Garden di New York, andò in scena la rivincita tra Pietri e Hayes. Il richiamo fu enorme: ventimila spettatori, tra cui molti italoamericani, altri diecimila fuori dallo stadio perché non c’erano più biglietti.
I due atleti si sfidarono in pista sulla distanza della maratona, 262 giri. Corsero uno a fianco all’altro per quasi tutta la gara, ma alla fine Pietri staccò Hayes negli ultimi 500 m. Il Madison Square Garden, in particolare gli italoamericani, esultò per la vittoria e per il senso di giustizia ristabilito: Dorando Pietri era il vero trionfatore dell’Olimpiade oltre che dell’attuale sfida. Giustizia era fatta!
Da quel momento, Pietri passò ufficialmente al professionismo. Affrontò 46 gare e ne vinse 17. La sua ultima maratona fu a Buenos Aires, dove tagliò il traguardo col tempo di 2h 38’ 48”. In tre anni mise da parte 200000 lire, una cifra enorme per i tempi. Si ritirò all’età di 26 anni.
Dal giorno del ritiro esaudì il sogno di una vita, un sogno raggiunto correndo come un forsennato: un albergo a Sanremo, che significava libertà dal bisogno, affrancazione dal servaggio, dignità. Indipendenza. E a Sanremo fu inumato nel 1942.
Marcello Chinca Hosch