Avere vent’anni negli anni Venti. Essere scampati alla morte delle trincee e scegliere, tra un ballo e un dinner, un’eterea creatura. Più per farsi amare che per amarla. Antoine sceglie Marianne. La fa aspettare e si fa desiderare quasi con crudeltà. Si sposeranno. E lui si innamorerà di un’altra. «Antoine ed Evelyne si portarono contemporaneamente il bicchiere alla bocca e bevvero; ciascuno guardava il volto dell’altro e il movimento delle labbra, e all’improvviso passò tra loro quel lampo di desiderio che fa di un uomo e di una donna fino a quel momento indifferenti due esseri che non potranno più avvicinarsi l’uno all’altro senza amore, o senza il ricordo di quell’amore…». E qui Irène Némirovsky racconta magnificamente la passione di un amore impossibile, devastante, allucinato. Ma, soprattutto, racconta il dopo. Analizza la forza dell’unione coniugale. Dove l’amore e la passione, passato un certo punto, diventano quasi ininfluenti. «Sai, credo sia questa la forza del matrimonio in cui l’amore non ha, o non ha più, molto spazio». La lucida modernità di questa autrice è l’aver messo a fuoco la forza della vita a due dove la consuetudine e il senso di reciproca protezione, è più forte di tutto. «Gli anni di vita in comune avevano compiuto, quasi all’insaputa degli sposi, il loro lavoro segreto: di due esseri ne avevano fatto uno solo». Tanto che Antoine dirà: «La donna che ho amato di più non è questa, ma, in punto di morte, rimpiangerò ciò che mi unisce a lei più di quanto non abbia rimpianto la passione. La passione sembra un dono di Dio “troppo bello per essere vero”: si sente che Lui ce lo concede solo per un certo tempo; una cosa così, invece, è tutta nostra… conquistata a fatica, accumulata lentamente, distillata come un miele». C’è l’apologia delle coppie che, nonostante tutto – tradimenti, rancori, noia, disillusioni reciproche – ce la fanno. Spietatamente contemporaneo.