Affrontare la corporeità, la dissolvenza, inebriarsi nell’esibizionismo dell’intimità, il degrado del corpo e la sua ricostruzione artificiosa per governare attraverso una sessualità esplicita. Gli scatti fotografici di Daniele Vannini sono crudi, espliciti, un bianco e nero che si fa strada attraverso la luce nell’oscurità della metamorfosi. Trans e transizione, nel limbo ad un passo verso il precipizio degli inferi, per raggiungere la carne, l’esaltazione emotiva della sofferenza, della denigrazione, il rifiuto del sotterraneo, il paradigma sociale, uomo e donna, la via dell’attrazione attraverso la finzione alla ricerca della verità. La fotografia di Daniele Vannini non giudica, scruta la superficie dei corpi, delle esistenze che si sono affidate al suo studio senza vergogna come muse di un’atelier di un artista, vite prestate alla trasformazione contro l’etica per perseguire gli istinti, la fantasia e la grande illusione del grande palcoscenico del marciapiede, dare per avere, darsi per l’appagamento del potere a chi ha il dominio sulla sessualità.
Paola Fiorido
#
DYSPHORIA
Cosa significa essere transessuali, o meglio transgender, e cosa cercano queste persone? Il comportamento sessuale, così tanto discusso dalla società, seppur strettamente connesso, ha un ruolo secondario, perché non è questo, bensì la ricerca di una propria identità di genere diversa da quella “prescelta alla nascita“, a spingere queste persone a fare tanto ed a subire tutte le conseguenze delle loro scelte, pur di sentirsi bene con se stesse. Sentirsi bene nel proprio corpo e nella propria psiche, che non sentono loro, ma che non possono restituire al mittente come fosse un regalo non gradito. Dysphoria è un progetto sull’ identità di genere e sul transessualismo, ma è anche una riflessione su come il nostro corpo possa diventare la trasposizione più o meno manifesta agli altri della nostra mente. È, infatti, un percorso a due vie, dove l’attualità della tematica e l’approccio intimistico si fondono, affinché il corpo e la personalità dei soggetti possano, anche solo per un attimo, essere quelli di chiunque, invogliando ad un’interpretazione più empatica ed introspettiva rispetto a quella attualmente proposta dalla società e dai mezzi di comunicazione di massa. Non un lavoro di denuncia, bensì un’esperienza per “tentare” di comprendere, e per porsi domande. Il progetto, attualmente in fase di svolgimento, ha ottenuto nel 2017 il patrocinio dello Sportello Trans ALA Milano Onlus.
Daniele Vannini
“Il mio fotografare é frutto di una sofferenza, di un disagio personale. Per questo ho iniziato a scattare fotografie, per trovare una diversa chiave di lettura a certi aspetti della vita.”
Nato a Milano nel 1984, Daniele Vannini inizia il suo percorso professionale nel 2010 come reporter, collaborando con alcune agenzie di stampa meneghine, e pubblicando sulle più importanti testate giornalistiche italiane.
La sua ricerca personale si snoda tra esplorazione e analisi autobiografica. “Uso la fotografia come pretesto per conoscere e capire. Sono attratto da quello che viene definito borderline, da ciò che la società perbenista considera anomalo, sbagliato, o addirittura perverso. Quello che viene considerato “brutto” spesso rivela un’enorme autenticità, una pervicacia di vivere secondo la propria natura, senza maschere o condizionamenti.
In parallelo fotografo quello che fa parte del mio quotidiano, con le sue paure ed insicurezze. Tuttavia, che io stia fotografando mio figlio, un albero, o una transessuale nuda la cosa non cambia. Sento sempre di fotografare me stesso.”
Per affrontare questo complesso insieme di sensazioni adotta, di contro, uno stile di ripresa estremamente crudo e diretto. Un bianco e nero contrastato e, soprattutto, la luce del flash sparata sul suo soggetto. “Il flash mostra esattamente le cose per quelle che sono. È una luce dura, non edulcorata, così come lo é la realtà della vita. L’interpretazione, quindi, non é tanto nel modo in cui io fotografo, ma nel come le mie foto verranno osservate. Lasciare campo libero al mio osservatore e, contemporaneamente, metterlo davanti alla realtà per quella che é. Questo é il mio scopo.”
Di seguito l’intervista a Daniele Vannini, a cura di Paola Fiorido.
Qual è la tua visione della fotografia?
Considero la fotografia un ottimo pretesto per esplorare e conoscere quello che mi circonda. La peculiarità del linguaggio fotografico é quella della presenza obbligata. Bisogna essere davanti al proprio soggetto per fotografarlo, e la fotografia quindi, ancor prima di diventare immagine, é per me una profonda esperienza umana e personale.
Come nasce Dysphoria?
Dysphoria prende forma nel 2014. Il tema dell’identità di genere faceva parte di quegli argomenti che non conoscevo in prima persona e che desideravo approfondire. Il problema era che, non conoscendo nessuno che stesse vivendo quell’esperienza, non sapevo né come partire, né come entrare in contatto con quelle persone.
Devo dire che per questo progetto ho ricevuto una grossa mano dal caso, perché un giorno, uscendo dalla metropolitana in Piazza Oberdan a Milano, sono stato fermato da un ragazzo che mi ha chiesto se avevo voglia di “leggere un libro umano”. La mia curiosità ha fatto il resto, ho risposto subito di sì, e mi sono trovato catapultato nella manifestazione “Biblioteca Vivente”. In pratica, la lettura consisteva nel porre delle domande stampate su un foglio di carta a varie personalità che definiremmo “borderline”, per poi ascoltarne le risposte. Si poteva scegliere con chi parlare, e quando ho visto che tra queste persone c’era anche una donna transgender non ci potevo credere, era come se mi stesse aspettando. Quella donna era Antonia Monopoli, responsabile dello Sportello Trans ALA Milano Onlus. Non mi venne in mente neanche per un secondo di parlarle della mia idea; ero troppo concentrato ad ascoltare quello che mi stava raccontando e nulla, in quel momento, poteva essere più importante. Solo qualche mese dopo ho contattato Antonia attraverso Facebook. Mi ha dato appuntamento nel suo ufficio, le ho esposto il progetto e lei mi ha dato una grossa mano nel cominciare a realizzarlo. Una cosa che mi ha colpito: Quando le ho raccontato del fortunato incontro di quel giorno, lei mi ha risposto che la fortuna non c’entrava niente, e neanche il caso. Quel giorno dovevo essere lì, l’aveva deciso l’energia. Io ne avevo soltanto seguito il flusso.
Che difficoltà hai incontrato avvicinandoti nella realtà dei transgender che hai rappresentato attraverso i tuoi scatti?
A volte il rispetto e l’empatia non sono sufficienti. Ci sono temi che per essere affrontati richiedono più preparazione di altri, soprattutto se facendo o dicendo qualcosa rischi di ferire chi sta dall’altra parte, anche se non ne hai nessuna intenzione.
L’incontro con Antonia é stato fondamentale. Ho potuto porle tutte le domande del caso, e lei con estrema pazienza mi ha istruito non solo sul tema, ma anche sul come iniziare ad approcciarmi, su quello che potevo dire e su quello che dovevo evitare, almeno fino a quando il rapporto con i miei soggetti non si fosse consolidato. Deve aver fatto un ottimo lavoro con il sottoscritto perché non ho mai trovato barriere, ma anzi molta disponibilità sia verso di me che verso il mio lavoro.
Cosa hai scoperto della transessualità?
Che i gusti sessuali non hanno nulla a che vedere con la disforia di genere. Io stesso confondevo il travestisimo con la transessualità, ed é un errore enorme. Si tratta invece di un inferno, di un tormento sia psicologico che fisico. Le persone trans non si riconoscono nel sesso e nel corpo che hanno ricevuto alla nascita. È una cosa che, se non la vivi su di te, anche solo immaginarla é impossibile. Lo dico perché io ci ho provato più volte, nel tentativo di immedesimarmi in quella condizione, con zero risultati. Alla fine sono giunto alla conclusione di ringraziare la vita per non aver subito un simile supplizio.
Quali sono state le tue emozioni nel tragitto per realizzare Dysphoria?
Dysphoria mi ha cambiato in maniera radicale come fotografo, sia dal punto di vista concettuale che da quello stilistico. Per prima cosa, é con questo progetto che ho iniziato ad utilizzare il flash in macchina come unica fonte d’illuminazione, una scelta fatta in corso d’opera, il che ha comportato eliminare tutte le immagini precedenti (a parte un paio) perché sentivo non funzionavano. L’utilizzo del flash é arrivato perché, guardando quello che stavo facendo, sentivo di essere troppo presente nelle immagini. Invece il mio scopo era sbattere in faccia a chi avrebbe osservato le fototografie quella che é la cruda realtà delle cose, senza buonismo e senza nessuna edulcorazione, ma anche senza nessun pregiudizio. In questo senso mi sono stati di grande aiuto ed ispirazione i lavori di Weegee, Anders Petersen, Christopher Stromholm e Antoine d’Agata.
Ho poi provato sulla mia pelle la dura lezione di non farmi inghiottire dalle persone che sto fotografando, che per me é una cosa davvero difficile. Tendo quasi sempre a stringere legami molto forti con i miei soggetti, al punto da diventarne amico. Può sembrare un bene, un segno di sensibilità ed empatia, ma quando si supera una certa linea il lavoro passa in secondo piano a favore del puro rapporto umano, e questo un fotografo non può permetterselo. Bisogna sempre ricordarsi che siamo lì per lavorare, non per farci degli amici.
Cosa vuoi comunicare attraverso la tua ricerca?
Loro esistono.
La diversità esiste.
Non importa il nostro punto di vista, non importa essere pro o essere contro. La vita é complessa e articolata, spesso incoerente, questo é l’indiscusso stato delle cose che molti non vogliono accettare. E questa diversità é sotto casa nostra, non serve andare in qualche paese lontano ed esotico per capirlo.
Perché hai scelto di utilizzare il bianco e nero per questa tua serie fotografica?
Quando lavoro su certe tematiche vedo in bianco e nero, ragiono solo in termini di chiaro scuro. Il colore ha bisogno di un approccio diverso, e la ricerca dei giusti toni nel mio caso diventa una trappola che mi distrae dallo scopo primario, cioè l’attenzione totale alla persona che ho davanti. Diverso é quando sono in studio, dove lavoro quasi esclusivamente sul colore, e il contrasto che percepisco é proprio quello dato dai colori.
C’è un soggetto tra questi che hai colto per Dysphoria che ti ha particolarmente colpito?
Si chiama Annalisa e vive a Torino.
Senza giri di parole e quella che mi ha dato di più in termini di immagine.
Mi ha trasmesso tutto il suo vissuto personale investendomi di emozioni. Fotografarla é stata una delle esperienze più forti che io abbia mai provato. Tutto questo, però, ha generato anche dei contrasti. Lei non si piaceva nelle mie foto, e ho dovuto lottarci in questo senso. Vedere la sua sofferenza le ha richiesto del tempo per metabolizzare la cosa e accettare il mio lavoro, e solo recentemente ha capito il senso di quelle immagini e della loro crudezza.
Dove si sta dirigendo il tuo occhio fotografico in questo momento?
Sono attratto da quello che la società considera “al limite”, da quello che irrita i perbenisti ed i benpensanti. Qualcuno mi ha detto che amo fotografare “il brutto”, e potrebbe anche essere vero se non fosse che per me quel brutto é invece bello. Di base, trovo che in certe attitudini ci siano dosi massicce di autenticità e libertà con la “L” maiuscola che nella normalità, non dico sempre, ma spesso mancano. Posso quindi dire che mi sto dirigendo sempre più un quella direzione.