Oggi di Cioran si sa quasi tutto. Abbiamo assistito, negli ultimi vent’anni, a una vera e propria riscoperta del pensatore rumeno, finalmente sdoganato dalle nicchie nichiliste e post depressivo-esistenzialista dei giovani studenti che gli diedero notorietà verso la fine degli anni ’80. Oggi, grazie al lavoro appassionato non solo di artisti invaghiti di lui, ma di veri e propri studiosi, il genio di Rășinari non è più visto come un’iconica rockstar, ma riconosciuto uno dei massimi moralisti (nel senso francese del termine) del ’900. Oggi abbiamo la traduzione in italiano di tutta la sua opera, di innumerevoli epistolari, dei sui Quaderni.
Allora: perché un importante volume che raccoglie molte sue interviste dovrebbe rappresentare un nuovo caposaldo nello studio del pensiero di Cioran? Cosa offre di “nuovo”?
Perché è proprio il pensiero di Cioran che richiede un approfondimento “privato”: ci troviamo di fronte a un pensatore non sistematico; a un pensatore del frammento: un eretico della parola che guardando il cielo si chiede il perché della creazione, che ha l’ardore di affrontare l’enormità dell’esistenza. Un pensatore che pare non aver alcun interesse nell’essere capito e fugge la notorietà, che giudica l’università come la camera mortuaria della filosofia, che scrive per sé stesso, per superare le proprie disperazioni e insonnie.
Un pensiero “di carne e di sangue” non può, non vuole e non deve ridursi a sistema, a linea, a riassunto per le scuole. Il pensiero di Cioran è un’iperbole e poi una retta che corre parallela a un’altra di vent’anni precedente, e poi un cerchio che torna su sé stesso e una spirale. È un pensiero vivo, che si muove, che sfugge a chi non ne condivide i picchi emotivi, la malattia, il senso della morte. Un pensiero che può essere più intuito (Schopenhauer) che capito, per quello che pretendiamo sia, accademicamente, “capire”.
Ma la filosofia di Cioran esiste, eccome. Un sistema c’è, così come una precisa Weltanschauung. Ma tutto questo non è il lascito volontario del pensatore transilvano, è ciò che i suoi studiosi hanno ricostruito, scavato tra i poemi in prosa che formano i suoi libri, ricucito frammento per frammento confrontando le parole su cui torna decennio dopo decennio, i pensieri che si accavallano e dipanano lungo l’opera di tutta una vita.
E, allora, ecco che il “privato” diventa di importanza assoluta.
Quando nel 1997 apparvero i Cahiers fu la prima rivoluzione: i quaderni privati, i diari se vogliamo, di Cioran, raccolti e consegnati all’editore Gallimard dalla compagna di una vita, Simone Boué, diedero voce all’uomo che annotava i pensieri, i lampi, abbozzava idee che sarebbero diventati libri, raccontava la quotidianità offrendo al lettore un nuovo punto di vista, vicino eppure separato dell’opera in sé conclusa, un’epochè sul pensiero effettuata dallo stesso autore di quel pensiero. Un punto di vista diverso sullo stesso argomento: cosa di più necessario per comprendere ciò che è in costante movimento, che nega la possibilità di essere sistematizzato?
Oggi, questo volume di quasi cinquecento pagine – un lavoro immenso curato da Antonio Di Gennaro, tra i più attenti e impegnati studiosi di Cioran nel mondo – ci offre un nuovo scatto in avanti, probabilmente definitivo, nell’analisi, comparazione e comprensione dell’uomo Cioran: comprensione ineludibile se si vuol tentare di capire il lavoro di tutta la sua vita.
La nota autobiografica, il modo, il tono dell’espressione, la confessione. Gli anni che passano e si possono sentire nelle ultime pagine cariche di malinconia, ma sempre fresche e giocose.
Scopriamo, grazie alle traduzioni magistrali delle interviste, note autobiografiche che diventano fondamentali per comprendere le origini della formazione e, quindi, del pensiero di Cioran: «Il più gran libro che sia mai stato scritto è il Macbeth, soprattutto per le riflessioni che vi si trovano»1, il legame con il poeta e amico ebreo Paul Celan: «Egli rappresentava per me la vulnerabilità assoluta»2, il rapporto con la religione: «Senza l’esperienza religiosa non potrei vivere, ma sono assolutamente incapace di essere credente»3.
Lampi sarcastici e taglienti che ci raccontano l’attitudine, il modo, “le ton” diceva lo stesso Cioran, in cui non solo scriveva e pensava, ma viveva: «se qualcuno è soddisfatto della propria vita, allora è metafisicamente poco interessante»4; il rapporto con la fede: «Fondamentalmente, io sono un mistico mancato. Un mistico in cui qualcosa non ha funzionato; il momento negativo è troppo forte in me. Sono convinto che la vita sia lo sviluppo di una delusione»5; le confessioni giocose e autoironiche: «il grande successo della mia vita è che ho potuto vivere senza un mestiere. In fondo, ho vissuto la mia vita abbastanza bene. Ho fatto finta che fosse un fallimento. Però non lo era»6.
Fino a sentire, dalla voce del Nostro, il senso ultimo di ogni sua parola: «Per me, scrivere è un ultimatum all’esistenza. Questo è il significato di tutti i miei libri. È così: una sorta di ultimatum reiterato all’esistenza. È un attacco liberatorio. Si può sopportare l’esistenza, demolendola»7.
Questo volume ci regala, attraverso la voce di Cioran, un nuovo punto di vista su Cioran, ci dona quello che Simone Boué e Gallimard ci donarono più di vent’anni fa coi Cahiers.
Ultimatum all’esistenza è per l’appassionato un bellissimo affresco sul pensatore, per lo studioso il nuovo tassello imprescindibile nell’analisi dell’opera.
Fabio Rodda
1 E.M. Cioran, Ultimatum all’esistenza. Conversazioni e interviste (1949-1994), a cura di A. Di Gennaro, La scuola di Pitagora, Napoli 2020, p. 62.
2 Ivi, p. 40.
3 Ivi, p. 43.
4 Ivi, p. 50.
5 Ivi, p. 155.
6 Ivi, p. 399.
7 Ivi, p. 69.