Nato a Marsiglia nel 1932, adolescenza a Fès (Marocco), università alla Sorbona, Marc Fumaroli è un critico e storico della letteratura di fama mondiale. Dal 1986 è docente al Collège de France; dal 1995 membro dell’Académie française, al posto che fu di Eugène Ionesco. E’ visiting Professor e conferenziere in numerose università dell’Europa e degli Stati Uniti. Scrive regolarmente per “Le Monde” e “Le Figaro”.
In Italia, Fumaroli è stato tradotto soprattutto da Adelphi. Marc Fumaroli è innanzitutto uno dei maggiori storici e interpreti della letteratura e della civiltà (in particolare francesi) del ‘600 e del ‘700 a cui ha dedicato studi fondamentali: L’Âge de l’éloquence (1980), Héros et orateurs (1990), La diplomatie de l’esprit, de Montaigne à La Fontaine (1994), Le poète et le roi. Jean de La Fontaine en son siècle (1997). Colpisce di Fumaroli, da un lato, la grande erudizione e ampiezza di documentazione esibita. Dall’altro la capacità di spaziare in ambiti diversi da quello strettamente letterario. Con lo stesso rigore e unità di metodo, viene ricostruita e interpretata la cultura figurativa del XVII secolo (in L’École du silence,1994) o la civiltà della conversazione (in Trois institutions littéraires, 1995).
Che si occupi di Montagne, di Poussin o di Madame de Staël, Fumaroli non sfoggia mai una erudizione fine a se stessa. Il suo intento è di vivificare il passato cercandone gli agganci con il presente, per capire da dove siamo venuti, le radici comuni della cultura europea e quelle specifiche delle culture nazionali. Sintomatico a questo proposito uno dei suoi ultimi lavori: il saggio che introduce La Querelle des Anciens et des Modernes (2001), dove la contrapposizione Antichi /Moderni, diviene il paradigma di altre opposizioni che si sono radicate nella nostra cultura.
Un altro aspetto che contraddistingue la figura di Fumaroli è il fortissimo interesse per la retorica. Oltre ad essere uno dei maggiori esperti di quella del ‘600, Fumaroli è tra gli artefici della rinascita di questa disciplina nella sensibilità e nella cultura di oggi, dopo secoli di oblio e di disprezzo. Non a caso occupa al Collège de France una cattedra “dove la parola retorica figura per la prima volta dopo il XVI secolo”. E’ lui inoltre l’ideatore e il curatore della monumentale e recentissima Histoire de la rhétorique dans l’Europe modene, 1450-1950, uscita lo scorso anno: più di millecinquecento pagine affidate al sapere di ventiquattro studiosi di tutta Europa.
Attento alla reale comprensione delle cose e alla demistificazione dei luoghi comuni o delle inerzie mentali, Fumaroli è anche un vivace e provocatorio polemista. Nel volume L’État culturel (1991) ha affrontato con intransigente rigore l’analisi dei meccanismi attraverso i quali lo Stato divine una “stella che guida la Cultura” e quest’ultima una sorta di “religione moderna”. Non è mancato di intervenire, più recentemente, sui rischi per l’Europa di adottare i modelli di insegnamento americani o sulle celebrazioni per Sartre. Sempre controcorrente.
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Berna, Palazzo Federale, 9 novembre 2001
Signore, Signori
Non posso farvi capire quanto è grande la mia riconoscenza se non vi esprimo subito la mia sorpresa e la mia ammirazione. Vengo infatti da un paese, la Francia, nel quale, se si eccettuano i microcosmi particolari e controcorrente dell’Institut de France, del College de France o dell’Ecole Pratiques des Hautes études, l’erudizione è considerata con un totale disprezzo. Un pregiudizio, ingenuo e astuto insieme, oppone ciò che il Settecento ha definito le belles-lettres a quell’erudizione che il Seicento considerava sinonimo di letteratura e che nel corso del secolo dei Lumi è diventata sinonimo di pedanteria ridicola e vana. Il XIX° secolo romantico aveva resistito a questa tendenza distruttiva. Debbo constatare che, negli ultimi decenni, quest’ultima è di nuovo considerevolmente aumentata in Francia e in Europa. Si è giunti ad atrofizzare, nella letteratura, la propria memoria e ad assimilarla, con leggerezza colpevole, alla stagione alla moda dei romanzi “à l’estomac” secondo l’espressione eufemistica di Julien Gracq.
Quanto a me, non mi illudo: se godo di una modesta fama nel mio paese ciò è dovuto ad un libello polemico, e non certo ai libri eruditi con cui mi sono guadagnato la stima duratura dei miei pari francesi e stranieri. Per tutto ciò, dunque, sono stupefatto ed estasiato che una Fondazione e una Giuria internazionale così prestigiose come quelle della Fondazione Balzan abbiano avuto l’ardimento di attribuirmi un premio così importante per la mia opera di erudito, cosa che farà riflettere tutti coloro che denigrano l’erudizione e la letteratura nel senso etimologico che a questa bella parola oggi disprezzata hanno dato Sainte-Beuve, Valéry Larbaud, Curtius e Auerbach. Ricevo dunque questa incredibile liberalità come un omaggio reso a tutta l’erudizione letteraria in lingua francese, e vi esprimo un ringraziamento tanto più sincero in quanto la vostra saggia generosità mi permetterà di essere a mia volta un mecenate per giovani eruditi e per ricerche che sino ad oggi dovevo limitarmi a ispirare.
Erudire, vuol dire uscire dall’ignoranza e dalla propria rozzezza; è un’esperienza e un’ascesi della memoria inseparabili della letteratura. Ogni poeta degno di questo nome è anche e soprattutto un erudito letterario. Dante è anche un esperto di poesia provenzale oltre che di poesia latina. Nella Divina Commedia accetta di essere guidato verso i sommi cieli prima da Virgilio e poi da San Bernardo di Chiaravalle. Al confronto, anche l’erudito più onesto è un poeta solo in potenza, un ausiliario della poesia. L’uno coniuga l’invenzione e la memoria, l’altro è un semplice magistrato della memoria. Tuttavia l’uno e l’altro, a livelli diversi, sono entrambi indispensabili alla costruzione letteraria. Il primo, il poeta, accende per così dire il fuoco dell’immaginazione e dell’emozione sotto la memoria della propria arte, l’altro, nel migliore dei casi, gli prepara e gli offre i materiali per alimentare questo fuoco. Hanno comunque in comune l’esperienza fondamentale della letteratura: riconoscere, qui e adesso, le rovine del passato e le lontananze dell’altrove, e scoprirne, con la meravigliosa possibilità che il linguaggio dà loro di comprenderle, la terribile impossibilità di ripristinarle e raggiungerle. La letteratura è una mnemotecnica malinconica, che conduce cioè lo spirito umano, preda del tempo e della separazione, a misurare i poteri e soprattutto i limiti della parola al cospetto dell’irreparabile.
Molto presto mi sono interessato alla retorica, fino ad essere considerato oggi un suo grande conoscitore, proprio perché ho creduto di discernere nell’antica disciplina, che sino al secolo scorso era sopravvissuta alla decadenza di numerosi imperi e di molte lingue, una profonda riflessione sulla memoria, i tempi, i luoghi, la diversità stessa degli uomini e sui mezzi che possiede la parola, in particolare la parola letteraria, per scongiurare il loro sbriciolamento. Per secoli si sono dette molte cose negative sulla retorica insegnata nelle scuole; si è arrivati addirittura alla fine del XIX° secolo a credere di poterne fare a meno. Recentemente però è successo che un nostro ministro dell’Istruzione ha dovuto rivolgere uno sguardo nostalgico verso l’educazione alla parola un tempo praticata nelle classi di poetica e di retorica: nel confronto con la scuola contemporanea esse sembrano rappresentare l’età dell’oro.
Ma il principale interesse che per lo storico presenta nelle scuole la retorica anche sommaria, utilitaria e normativa, risiede nella sua abilità a legare intimamente la forma orale e scritta del discorso con una visione dell’esistenza; quando questa visione maturava fuori dalla scuola, poteva andare controcorrente e opporsi alle idee e ai conformismi dominanti, tanto grande era la diversità e l’incompatibilità tra le varie esperienze storiche che la memoria letteraria trasmetteva parallelamente. Senza alcun dubbio, la retorica insegnata nelle scuole dell’Ancien Régime, aveva un’intenzione conservatrice, cosa che le è valsa la violenta ostilità dei progressisti ottocenteschi, ma vi era anche un’intenzione nascosta di mobilità sociale e di straniamento in senso prettamente poetico, che aveva certamente delle conseguenze politiche, filosofiche e religiose.
La scuola retorica continuava ad offrire come modelli di stile, in piena era cristiana, poeti antichi permeati di
epicureismo e, sotto la monarchia assoluta, oratori dell’Atene democratica o della Roma repubblicana. Mentre la forma normale della parola in un ambiente monarchico, aristocratico e cattolico, era l’elogio, che effettivamente celebra e rassicura senza sussulti l’ordine gerarchico del mondo, la retorica insegnata nelle scuole non trascurava di introdurre alla argomentazione giuridica e alla discussione politica di cui Cicerone è stato in ogni tempo il modello, il teorico e potrei dire addirittura il martire: anzi, essa contrapponeva nei suoi esercizi l’ampiezza fastosa del periodare alla malinconia meditativa, ironica e paradossale dello stile ellittico. Seneca, Tacito e Giovenale, testimoni antichi dello spirito libero contro la tirannia imperiale, erano studiati e imitati dai giovani studenti che, d’altra parte, erano invitati ad imitare anche Plinio il Giovane per celebrare Luigi XIV e Luigi XV, dei quali erano i sudditi, come se questi Romani animati dalle libertà repubblicane fossero stati loro contemporanei.
Si è accusata a lungo la scuola retorica di far vivere i propri allievi in modo artificioso, in una lingua e in un mondo diversi da quelli in cui stavano per entrare. In realtà è stato proprio per questa ragione che essa, suo malgrado, ha allevato una folla di scrittori originali nei quali l’ironia nasce dalla loro capacità di vivere in tempi e in stili distinti da quelli che dettava loro il conformismo imperante; questa scuola ha preparato intere generazioni a liberarsi dai modelli sociali stabiliti dal mondo circostante e a sognare di essere cittadini e repubblicani in pieno regime monarchico assoluto. Quelli che venivano chiamati un tempo gli studi classici risiedevano in questa mnemotecnica letteraria che permette di raggiungere sin dall’adolescenza molti campi umanistici, molti modi di vivere e molti modi di raccontare il mondo, e che evita sempre il rinchiudersi in modelli sterili.
È su questo sfondo della diversità retorica, tenuta in poco conto sin qui dagli storici, che mi sono invece dedicato allo studio dell’apparizione e dello sviluppo, nell’Europa romanza del Rinascimento, di quella che è stata definita sin dall’inizio del Quattrocento la Repubblica delle Lettere. Questa strana creazione fittizia che è stata l’ambito protettore della collaborazione internazionale e interconfessionale tra eruditi, studiosi dell’antichità, poeti, artisti e anche scienziati di ogni disciplina, non avrebbe potuto produrre delle solidarietà così feconde e durature senza la scuola retorica nella quale tutti questi studiosi si erano formati. Essa ha loro insegnato che lo stile è anche un metodo di pensiero e che la ricerca della verità non può prescindere da un’eloquenza ben equilibrata che ne faccia valere, ed eventualmente trionfare, le conquiste. Galileo, sesto membro dell’Accademia dei Lincei, era circondato da letterati che si appassionavano al suo metodo e alle sue scoperte; egli sapeva che le sue preferenze letterarie erano in sintonia con il suo stile ironico di pensiero e propagava le sue scoperte come un grande retore, come un virtuoso del dialogo e della discussione polemica. Non era ancora stata inventata l’artificiosa contrapposizione tra le “due culture”.
Spero mi scuserete di avervi imposto, quale ringraziamento, una professione di fede dei principi che hanno guidato e continueranno a guidare più che mai la mia ricerca appassionata ed erudita sull’arte della persuasione antica e moderna, una diplomazia mentale che molte volte ha reso il mondo più civile e, quando è stata dimenticata, lo si è sempre crudelmente pagato. Si tratta di una ricerca spesso ignorata, disprezzata o combattuta. Ma voi l’avete invece legittimata pubblicamente con un’autorità e un risalto eccezionali. È per ciò che mi sono sentito autorizzato a parlare nel corso di questa cerimonia a nome di tutti coloro che in ogni parte del globo, prima di me, dopo di me e con me, si sono dedicati e si dedicheranno a servire la tradizione degli studi e delle arti liberali. Dal profondo del cuore, grazie.