Un pianoforte a coda con una gamba spezzata si accascia nel salone di una villa maestosa invasa gentilmente dalla vegetazione. Tutto è travolgente bellezza e rovina. Bellezza che resiste e diventa sempre più interessante e profonda, come il viso di un uomo maturo solcato dalle rughe, come lo sguardo di una donna che ha vissuto la gloria e non la rimpiange. Così ho scoperto il fotografo Nicola Bertellotti di Pietrasanta.
Mercedes Viola
#
Di seguito l’intervista a Nicola Bertellotti
Da dove sei partito per arrivare a questi luoghi?
Il cinema è stato il mio primo amore. Da ragazzino facevo cortometraggi con gli amici e il mio sogno era diventare regista, ma quando è arrivato il momento di concretizzare, non me la sono sentito.
La fotografia quando arriva?
È arrivata molto dopo, con l’amore per i viaggi. Avevo trent’anni, viaggiavo molto e i souvenir che mi prendevo erano le foto che facevo. Poi un giorno mi trovo davanti per caso, nel nord d’Italia, questo posto a Consonno, sulle colline di Lecco: una specie di Disneyland abbandonata, costruita negli anni ’60 da una persona molto eccentrica. Tra tutti i posti è anche il peggiore, ma è stato il primo.
Ti ha colpito l’abbandono?
E’ stato una madeleine che mi ha fatto rinascere suggestioni da bambino, quando mio padre mi aveva portato in un posto molto consunto, arrugginito, e io avevo sentito il fascino per queste giostre decadenti che per tutti erano brutte.
Appena entrato a Consonno con la mia fidanzata mi si avvicina una troupe di youtuber e mi intervistano. Mi chiedono perché sono lì e perché mi piacciono i posti abbandonati. E io, anche se era la prima volta che entravo in un posto così, ho comunque risposto loro qualcosa.
Come una profezia.
Sì, se penso che poi questo è diventato il mio lavoro.
Tornato a casa mi è venuta una specie di febbre, per questi luoghi. Avevo in programma un viaggio a Berlino e invece delle documentazioni solite, ho iniziato a fare ricerca sui posti abbandonati e ho trovato un parco divertimento – mio soggetto preferito – della Germania dell’Est degli anni ’60.
E non hai più smesso.
No, da lì parte una ricerca febbrile, una caccia al tesoro. Mi sembrava una cosa da adulti, ma anche un po’ un gioco che riuniva tutte le mie passioni: viaggio, storia, senso dell’avventura e decadenza. Viaggi ma non fai turismo, vai nella provincia fuori dalle guide turistiche, in posti che sono tutta micro e macro storia. Dalla casa del contadino con i ricordi di famiglia, a luoghi di grandissimo lusso che sono stati calpestati anche da personaggi storici, come per esempio la casa dove è stato bambino Camilo Benso Conte di Cavour. Tutti luoghi che rispetto in maniera totale.
E il senso dell’avventura?
Perché veramente si entra in un aera sconosciuta, fuori dalle mappe – hic sunt dracones, come si trovava iscritto sulle mappe medievali: qui ci sono le bestie, qui ci sono i draghi. Sento l’esigenza di mostrare la geografia invisibile introno a noi.
Ci sono dei rischi?
C’è del pericolo, a vari livelli. Perché è illegale: qualsiasi rovina appartiene a qualcuno, a volte riesci a rintracciare il proprietario e a chiedere il permesso, ma la maggior parte delle volte, no. Perché ci sono posti che potrebbero crollare in qualsiasi momento e tu lì dentro cammini, ci passi del tempo. E perché sei in luoghi dove nessuno si accorge se sparisci.
Una volta ero in Bulgaria con un amico, stavamo andando a fotografare un posto, quando una tempesta di ghiaccio inaspettata ha quasi sommerso di neve la macchina a noleggio in una strada fuori dal mondo. La fortuna volle che dietro ci fosse una macchina con dei turisti Bulgari che hanno chiamato la protezione civile e che dopo quattro ore, di notte a -6 gradi, mi hanno tirato fuori già febbricitante. Sono tornato a mani vuote. Comunque la precarietà e il rischio sono componenti che mi spingono.
Come si fa a far diventare lavoro una passione?
Non devi mai farlo per un fine. È proprio l’amore incondizionato che ti porta da qualche parte. È stato il soggetto che ha fatto di me un fotografo. Il colpo di fulmine è stato così forte, che se avessi avuto talento per la scrittura o per la pittura, li avrei narrato con altri mezzi, ma avevo una macchina fotografica al collo.
Poi un giorno Francesca Sensi, la mia gallerista, venne a una mostra a Pisa e da lì è nato un po’ tutto. Ma il gallerista deve trovare te a seconda del suo sentire, non puoi mandare il curriculum. Il gallerista va a caccia di ciò che lo fa vibrare. Oggi sono presente in due gallerie a Milano, due in Toscana, e in un ristorante con un pubblico interessante, internazionale.
Per avere i risultati tu devi pensare solo a fare bene quello che vuoi fare. Vedo tutti che si affannano, e più vedo l’affanno a collocarsi e meno si collocano. La disperazione che si percepisce e fa fuggire.
Qual è il tuo scopo, cosa cerchi in queste foto (se lo sai)?
Non è la fotografia il centro, ma la bellezza della decadenza – e la voglia di condividere quello che vedo; la voglia di dire: guardate cosa c’è intorno a noi. Io in questi luoghi vedo bellezza più tempo, dove il tempo è un plus, non qualcosa che toglie. Racconto la della bellezza dei luoghi in decadenza, che si dissolve piano piano.
E non importa se non sono il primo a esserci stato. Io sono testimone di quel momento tra due fini: la fine funzionale, e quella ultima alla quale va incontro. Ne parlo nel mio libro Fenomenologia della fine.
Certo, trovo uno sfregio i writers che rovinano gli affreschi mentre trovo invece poetica l’irruzione di un cervo. Ma tu fai la foto così come lo trovi, non sai com’era prima. Io lo vedo come l’ultimo stadio di un processo temporale: la mia fotografia è il testimone di quel momento lì. Pensa che al meno il 50% di quello che ho fotografato non esiste proprio più.
Che differenza tra la tua foto e quella di qualcun altro dello stesso luogo?
Per me i posti trascendono quello che sono. Vengo colpito da visioni che parlano solo a me quando entro. Sono molto cinematici, mi ricordano cose mie, suggestioni, e io poi elaboro la mia visione personale tramite il titolo. Per questo non divulgo i luoghi. Il mio interesse non è far vedere tale o quale villa, ma la mia visione, la mia elaborazione di questi posti. È una cosa metafisica che riguarda me. La fantasia è quella che lavora di più quando faccio fotografia, non è mera descrizione.
Esteticamente, decadenza o abbandono?
Se si parla di gusto estetico, mi piace molto di più la decadenza che l’abbandono. Un posto totalmente intatto, non mi interessa, anche se abbandonato. Perché a me interessa il tempo che divora, che incide. Ci sono delle ville incredibili, ma sono intatte: non mi interessa, non c’è il tempo che ha fatto il suo lavoro.
Marc Augé, che cito sempre, dice che la rovina è qualcosa fuori dal tempo, né passato né futuro, testimonianza del tempo puro. E come quando uno non sa di essere ripreso o fotografato e il gesto è puro. Nelle cose abbandonate trovo questa purezza.
Credi agli spiriti?
Non ci credo. Anche se sento lo spirito della casa, del luogo. Il posto ha un anima, diventa un essere per me e a volte ne parlo come di una persona, sento un legame. Ci sono alcuni posti in cui penso, in un giorno particolare, con una certa luce, e mi chiedo: come starà in questo momento?
Il fotografo è un artista?
Non per falsa modestia, ma se mi chiamano artista, non mi ci sento. Sono contento quando trasmetto l’amore per questa cosa, un amore anche ossessivo che ha inglobato tutto, quando la gente viene incuriosita dalle storie, dalla narrazione, se riesce a sentire che bello questo posto anche se non vive più. Che il focus sia sulla bellezza è la prima cosa per me.
Dieci anni fa c’era molto l’effetto creepy dei posto abbandonati. Io non cerco questo. Quando ho elaborato la mia visione, sono inondati di luce. Uso sempre luce naturale e la mia post-produzione è minima, perché vorrei che se tu per caso capiti in quel luogo, lo guardi e lo riconosca. Io nei luoghi trovo questo senso di pace, di armonia, di bellezza, nulla a che vedere con la paura, la angoscia. La carrozzina a me parla di un tempo in cui c’era un bambino e c’era la gioia e l’allegria, come i pianoforti mi parlano di quando c’era la musica.
Intervista a cura di Mercedes Viola