Marco Bertozzi, nella prefazione al Dell’Ente e dell’Uno di Pico della Mirandola (Bompiani 2010), confida che l’idea della nuova edizione nacque a lui e a Massimo Cacciari in un’“allegra cantina” mirandolese. Tristo però dev’esser stato uno dei due avventori, se della postfazione sua così scrive Stéphane Toussaint sull’ultimo numero di “Bruniana & Campanelliana” (pp. 289-291):
L’ambizione di Cacciari è: lasciandosi dietro le interpretazioni storiografiche del passato, rivendicare finalmente il «valore speculativo dell’Umanesimo».
Cacciari interpreta la distinzione tra ente ed essere come un’aporia connessa con l’impossibilità per l’Uno di venir nominato senza perdere il suo statuto supremo. L’Uno, dai tempi di Plotino, non avrebbe avuto dalla sua parte l’esistenza, o meglio, «l’ek-sistenza»; invece l’essere superiore di Pico rientrerebbe nella problematica heideggeriana dell’ek-sistere, sicché «ek-sisterà concretamente negli enti che crea».
Il meno «avveduto» Ficino non avrebbe intuito l’aporia dell’Uno inesprimibile perché fu seguace di Plotino e non di Proclo (contrariamente al Pico); il «più avveduto» Pico avrebbe subito capito il pericoloso nichilismo insito in una definizione metafisica dell’Uno così ineffabilmente astratta da corrispondere al Nulla. Lasciamo stare che nella tradizione plotiniana notissima al Pico (per il quale l’amico Ficino aveva tradotto le Enneadi in un manoscritto annotato dallo stesso Pico!) l’irrappresentabile non equivale all’innominabile e non esclude la rappresentazione dell’Uno: dopo quanto dimostrato da Klibansky, Megna e Allen (innominati dalla Postfazione), riesce davvero inverosimile sostenere l’estraneità di Ficino a Proclo.
Consiglierei a chi si vuol convincere del debito del Ficino verso la filosofia procliana di leggere tre saggi passati sotto silenzio [uno di A. Etienne del 1997 e due di F. Lazzarin del 2003]. Sarebbe ragionevole, prima di decostruire autonomamente Pico, costruire reciprocamente una vera cultura pichiana ed umanistica. A fronte di tale esigenza viene malauguratamente sentenziato: «non sembra che il De ente abbia suscitato e susciti l’interesse della storiografia filosofica anche più avveduta». Eppure gli studi pichiani non hanno aspettato Cacciari, che ignora lavori dal 1989 al 2010, legati ai nomi (tra molti altri) di Reinhardt, di De Pace, degli editori tedeschi del De ente, di Narbonne, di Vanhaelen.
Per concludere, si resta increduli quando un immenso studioso († 1999) viene liquidato in una noticina: Kristeller si sarebbe reso colpevole di non aver capito niente dell’opera di Pico [La noticina invero gli imputa di “aver letto soltanto i primi tre capitolo (sic) del De ente”: andiamo bene!].
Si capisce da simili particolari quanto i modi della Repubblica delle lettere siano cambiati. Non è dato sapere quando cambierà invece l’habitus heideggeriano di impartire lezioni agli storici, ai filologi e ai rappresentanti della filosofia umanistica. Come in questa definizione del pensiero di Pico: «Il trascendersi delle possibilità del rappresentare non è che la rappresentazione dell’essenza ek-statica dell’esserci». Contributo reale al valore speculativo dell’umanesimo? Akatalepta mihi esse videntur [Paionmi assurdità].