Edgar Lee Masters, il poeta americano nato nel 1868 e morto nel 1950, in Italia è noto soltanto per la sua Antologia di Spoon River, antologia di versi satirici che fotografano l’ipocrisia di una piccola cittadina degli Stati Uniti e diventato un classico della letteratura statunitense. Da noi fu scoperta da Cesare Pavese, tradotta da Fernanda Pivano e pubblicata nel 1941. Ancora oggi, certo meno che in passato quando ad esempio, De Andrè ne trasse un intero album, l’antologia è identificata come un inno di ribellione. Masters, però, non è stato soltanto un poeta, ma anche un ottimo romanziere. A dimostrarlo Children of the market place, romanzo del 1922 mai pubblicato in Italia e di cui qui presentiamo i primi due capitoli (nella traduzione di Nicola Manuppelli). Un inedito che non risente del tempo, anzi: Masters racconta, con feroce ironia, la contraddizione di una democrazia come l’America per decenni complice della schiavitù dei neri. Un problema ancor oggi molto sentito: la schiavitù è stata abolita, ma non la questione razziale in una democrazia non ancora del tutto libera dalla schiavitù dei pregiudizi. Masters, in questo romanzo che per struttura e trama è il classico esempio di libro ottocentesco, racconta anche la storia di un ragazzo inglese che, ricevuta una piccola eredità, decide di partire per investirla e fare fortuna. Attraverso lo sguardo del ragazzo scopriamo come la terra sognata sia in realtà una “terra desolata”, molto spesso caratterizzata, già all’epoca, dal carrierismo più frenetico. Perché secondo Masters, come scriverà, “la letteratura è documento, un’indagine sociologica effettuata da un sociologo tramite l’immaginazione”.
Gian Paolo Serino
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CAPITOLO I
Sono nato a Londra il diciotto giugno del 1815. Mentre mi affacciavo su questo mondo era in corso la battaglia di Waterloo e migliaia di persone stavano andando a perdere le proprie vite, nell’esatto istante in cui una vita nuova di zecca veniva conferita a me. Papà era fra coloro partiti per il fronte. Sarebbe mai tornato? Mamma non aveva nemmeno diciotto anni. L’ansia per mio padre e lo sforzo di avermi messo al mondo finirono per danneggiarne la delicata costituzione. Morì dandomi alla luce.
Ho sempre avuto con me il suo ritratto. Mi sono sempre sentito legato a lei da una forma di amore tenero e mistico. Durante tutti gli anni della mia vita, il mio sentimento per lei non avrebbe potuto essere più intenso e personale, nemmeno se avessi vissuto l’esperienza di stare a contatto con lei tutti i giorni di fanciullo e adolescente. Che nostalgia fanciullesca e che tristezza le si scorgono negli occhi! Che sorriso dolce sulle labbra, come se volesse negare il cupo presentimento, che il suo spirito aveva, di un futuro pericoloso! I capelli scuri le cadono in fluenti ciocche sulla fronte, in modo disordinato, dandole un aspetto birichino ed elegante. La gola sottile sporge con grazia dal colletto slacciato. Questa ritratto venne fatto sulla base di uno schizzo realizzato da un amico di mio padre quattro mesi prima che nascessi. La mia vecchia balia mi disse che costui era rimasto invalido in guerra e che papà gli aveva chiesto di fare il disegno una volta fatto ritorno a Londra. Forse, chissà, aveva fatto qualche sogno inquietante sul calvario a cui presto sarebbe stato lui stesso sottoposto. Dicono che fossi bello da bambino. Il viso tondo, paffuto e ben nutrito il corpo. L’infermiera provò a leggermi l’oroscopo sui fondi del caffè. Avrei fatto strada nel mondo, sarei diventato qualcuno di importante. Venni affidato alla famiglia di mamma, che fu felice di darmi un posto in cui stare. Ed ero lì quando mio padre tornò dalla guerra, sei mesi più tardi. Era rimasto ferito. Era ancora debole e malato. Tutte queste cose mi furono raccontate da mia nonna negli anni successivi. Quando avevo quattro anni, papà emigrò in America. Mi sembra di ricordare qualcosa di lui. Chiesi a nonna se per caso non avesse l’abitudine di cantare Annie Laurie e se non ballasse lanciandomi fino al soffitto in un tripudio di giocosità; se non mi coccolasse sotto il mento ancora tenero, facendomi il solletico coi baffi. Mi confermò queste reminiscenze. E però di mio padre non ricordo il viso. Non ho suoi ritratti. Mi hanno detto che era alto e forte e col viso rossastro, e che il mio naso a punta è simile al suo, così come la mia fronte spaziosa e il mento fermo. Dopo che fu arrivato in America mi scrisse. Ho ancora le lettere, scritte a grandi caratteri, caratteristiche di una natura avventurosa. Sebbene fosse mio padre, in fondo era solamente una delle tante persone che cercavano di stare al mondo. Passai tutta la giovinezza con la famiglia di mia madre. Di rado parlavano di lui. Che cosa aveva mai fatto? Disapprovavano forse il fatto che se ne fosse andato dall’Inghilterra? Non era stato gentile con mia madre? Ma per tutto questo tempo, ciò da cui mai mi staccai fu il ritratto di mia madre. Nonna mi parlava quasi ogni giorno della sua dolcezza, della sua nobiltà d’animo, della sua bellezza e del suo fascino.Sono cresciuto nella chiesa inglese. Mi fu insegnato ad adorare Wellington, a odiare Napoleone come un nemico della libertà, un usurpatore, un falso imperatore, un mostro, un assassino. Venni mandato a Eton e Oxford. Fui istruito con l’idea che ci sia un governo morale nel mondo e che Dio regna sugli affari degli uomini. Queste sono cose che mi vennero insegnate e a cui cercai di resistere. Non mi ribellai quanto la mia mente, impermeabile per natura a queste idee, sembrava suggerire. Lessi l’Iliade e l’Odissea con appassionato interesse. Mi diedero una panoramica sulla vita, gli uomini, le razze, la civiltà. Mi fecero capire di più Napoleone. Che cosa sarebbe successo se avesse venduto il territorio della Louisiana ai ribelli americani, al fine di appoggiare quella nazione infedele per potere vincere l’Inghilterra e approfittare di qualche crisi futura? Forse quel governo così morale a cui mi era stato insegnato a credere, avrebbe desiderato che questo accadesse. Ma se lo Spirito del Mondo non è altro che il pensiero contemporaneo di molti popoli, come mi è stato insegnato a pensare, lo Spirito del Mondo potrebbe irresistibilmente aver desiderato questa supremazia americana. E ora a diciotto anni sono assorbito fra sogni e studi a Oxford. Ho molti amici. La mia vita è una delizia. Mi sveglio ogni mattina al suono di una canzone e balzo giù da letto. Ci divertiamo, parliamo, studiamo, discutiamo su questioni di ogni genere senza sosta. Non do nulla per scontato. Metto tutto in discussione, naturalmente nel privato della mia stanza o in quella dei miei amici. Non mi importa essere espulso. E nel bel mezzo di questa affascinante vita, ecco giungermi una cattiva notizia! Mio padre è morto. Ha lasciato una grande tenuta in Illinois. Devo andare lì. Almeno, nonna pensa sia meglio che lo faccia. E così i miei giorni di scuola sono giunti al termine. Eppure ho soltanto diciotto anni!
CAPITOLO II
Ho diciotto anni e l’anno è il 1833. Tutta l’Europa è in fermento, in alcuni posti l’atmosfera ribolle. Napoleone è stato mandato in esilio per dodici anni a Sant’Elena. Ma i principi della Rivoluzione francese hanno lasciato una loro traccia. Carlo è il re di Francia, ma in primo luogo per volontà della nazione e solo dopo per grazia di Dio. Non vi è alcun repubblica lì – ma c’è la sovranità del popolo, il primo principio della Rivoluzione francese, che ha dato a Carlo il diritto di governare … E che dire dell’Inghilterra? Fox aveva gioito alla caduta della Bastiglia. Coleridge, Wordsworth e Southey avevano cantato della libertà, esultando per l’emancipazione dei popoli dalla tirannia. Poi hanno cambiato idea. Il liberalismo era di nuovo sotto controllo. La rivoluzione era temuta e denunciata. I principi liberali venivano schiacciati … Ma non per molto. Noi studenti leggiamo Shelley e Byron. Costoro sono ormai passati all’altro mondo, da undici e nove anni rispettivamente. Non hanno mutato la propria fede, morendo nel periodo dorato e potente della giovinezza. Se fossero vissuti di più, sarebbero mai cambiati? Siamo convinti di no. E che dire dell’Inghilterra? È il 1833 e il disegno di legge di riforma ha un anno di età. I borghi putridi, come sono chiamati i distretti con pochi votanti, sono stati aboliti. C’è una parvenza di rappresentanza democratica in Parlamento. Il Duca di Wellington ha subito un calo di popolarità. L’Italia è in fermento, perché sulla scena è comparso Mazzini. La Germania sta combattendo l’influenza di Metternich. Noi studenti stiamo imparando a sbattere le nostre giovani ali. Un grande giorno sta nascendo per il mondo. E io che cosa devo fare? Partire per l’America!Che cosa mai starà succedendo laggiù? Sono diretto verso il Middle West di quella grande terra. Come sarà? Farò mai ritorno? Che vita condurrò? Questi i miei pensieri mentre mi preparo a salpare. La nave si chiama Columbia and Caledonia. È costruita in legno ed è lunga duecento piedi dal bordo del coronamento fino ad arrivare alla prora. Il baglio è di trentaquattro piedi e mezzo. Ha una stazza lorda di cinquecentoventi tonnellate. Può navigare in tempo favorevole a una velocità di dodici nodi all’ora. Vent’anni dopo mi verrà da ridere a tutto questo quando attraverserò l’Oceano a bordo della Persia, trecentosettantasei metri di lunghezza, tremilacinquecento tonnellate, una velocità di quasi quattordici nodi all’ora, con motori da quattromila cavalli di potenza È aprile. Il mare è agitato. Non abbiamo fatto in tempo a metterci in viaggio che le onde si sono gonfiate e hanno cominciato a sbattere la nave di qua e di là come se fosse un truciolo di legno. La prua affonda verso il basso fra grandi valli di acqua vitrea. La poppa si solleva in aria contro un cielo arrabbiato. Il mare prende a spallate la poppa dell’imbarcazione che trema come un cavallo spaventato guidato dal suo cavaliere. Ho con me dei libri da leggere. Mia nonna mi ha dato un sacco di cose da portare dietro per passare il tempo e non avere preoccupazioni. Ma non riesco a mangiare, non fino a che siamo in viaggio. Sto sdraiato nella mia piccola cabina, che condivido con un americano. Si ostina a parlare con me, anche di notte, quando sto cercando di dormire. Mi racconta dell’America. La sua casa è a New York City. È stato a ovest fino Buffalo. Mi fa lunghe descrizioni del fiume Hudson, e delle barche che su di esso viaggiano fino a Albany. L’elogio che fa dell’America è piuttosto stravagante. Un paese libero. Non ha re. È la gente a governare. Ho letto un po’ e sentito qualcosa sull’America. A Oxford noi studenti ci eravamo un po’ meravigliati dell’anomalia di una repubblica che mantiene l’istituzione della schiavitù. Ho chiesto al mio compagno di questo. Mi ha detto che non c’è alcuna contraddizione, dato che gli Stati Uniti sono stata fondati dagli uomini bianchi per gli uomini bianchi; ha detto che i neri erano degli esseri inferiori e che la loro schiavitù era giustificata dalla Bibbia, che la maggioranza del clero e delle chiese del paese ha approvato quell’istituzione; che gli schiavi sono trattati bene, molto meglio nutriti e con abitazioni migliori della gran parte dei lavoratori europei; meglio persino degli operai liberi in America. La sua tesi era che lo scopo della vita è perseguire i mezzi per vivere, che tutte le rivolte in Europa, la Rivoluzione francese inclusa, erano state ispirati dalla fame, che la lotta per l’esistenza era destinata a produrre oppressione, che i forti sfruttavano e controllavano i deboli, facendoli lavorare, mantenendoli in uno stato in cui potevano essere sfruttati. E tutto questo per il commercio. Condì questa analisi con l’osservazione che la schiavitù dei neri era un’istituzione benigna, esattamente in linea con gli interessi che la vita ti poneva di fronte. Che un crescente fanatismo negli Stati Uniti tendeva a dire menzogne sulla cosa. New York aveva sempre simpatizzato per la maggior parte degli Stati del Sud, dove la schiavitù era un’istituzione necessaria per il clima e l’industria del cotone. Continuò raccontandomi che circa un anno prima un calzolaio fanatico di nome William Lloyd Garrison aveva aperto un piccolo giornale chiamato The Liberator, in cui sosteneva le insurrezioni degli schiavi e il rovesciamento delle leggi che sostenevano la schiavitù, e che ora c’era un vero e proprio movimento nel New England per fondare l’American Anti-Slavery Society. E che John Quincy Adams, un tempo presidente, ma ora soltanto un vecchio importuno e invadente, si era presentato con una petizione al Congresso, firmata da varie circoscrizioni elettorali, per l’abolizione della schiavitù nel Distretto di Columbia. Pensava che alla fine il tutto si sarebbe tranquillizzato. Il New England aveva sempre richiesto una tariffa al fine di promuovere le proprie industrie, e quella politica era invasiva sul diritto degli stati a non necessitare né richiedere una tariffa. Mentre la schiavitù non danneggiava in alcun modo il New England, era semplicemente vittima di un clima di fanatismo morale.
Edgar Lee Masters
(traduzione di Nicola Manuppelli)