‘Tanto tempo fa c’era una bambina che, al sole della primavera, con le sue treccine bionde sballonzolanti correva scalza nella polvere tiepida. Nella viuzza del villaggio dove abitava che si chiamava Sei Case c’era chi la salutava e chi no’

Edith Bruck, a sessant’anni dal suo primo libro, innesta (col romanzo Il Pane perduto, edito dalla Nave di Teseo) un racconto autobiografico per nulla agiografico o solo rievocante l’orrore della Shoah, il libro spazia infatti dagli anni dell’infanzia in Ungheria prima dell’avvento nazista (la povertà della famiglia, la scuola dove eccelle, i primi amori platonici), anni in cui già fermenta il risentimento antiebraico diffuso tra la popolazione autoctona, più che risentimento l’odio che si rivela da subito minaccioso ed inquietante, ripercorrendo in successione l’avvento del governo fascista di Horthy e Szalasi, l’occupazione pacifica nazista e tutta la via crucis della deportazione ad Auschwitz assieme alla sua famiglia (treni blindati, gelo e fame, la selezione eugenetica alla stazione di Auschwitz, la separazione dai genitori e dal fratello, le camerate, le camere a gas, gli aguzzini tedeschi ma anche i tanti cittadini polacchi complici, le marce della morte) esperienza da cui non usciranno vivi i genitori e dalla quale miracolosamente Edith sopravvive con il sostegno della sorella Judith, quindi il libro ripercorre i giorni, i mesi successivi alla liberazione, in un’Europa distrutta ed alla fame con orde di reietti e profughi come lei costretti da un campo di accoglienza all’altro in attesa del rimpatrio. 

Ma sbaglia chi intenda questo libro come l’ennesima testimonianza sulla Shoah, sebbene ne sia il leit motiv della narrazione, Il pane perduto esprime più che altro un’attitudine rara, quella della protagonista appunto di non farsi mai aggiogare dal risentimento, dalla disumanità, dal circolo vizioso dell’avidità, dal l’indifferenza per chiunque si ritrovi vittima di una ingiustizia, ebreo o meno. Ciò contraddistingue il romanzo, la sua narrazione rapsodica sugli avvenimenti, senza mai indulgere su giudizi morali, psicologismi, diremmo una narrazione dei fatti visti cogli occhi di una adolescente che non conosce l’odio né lo capisce negli altri.

Appena liberata dal lager ecco che ricomincia un nuovo dramma, un dramma più sottile non meno sconcertante della prigionia, nessuno vuole credere al suo racconto, ognuno crede di essere stato ferito dalla guerra, lei si aspettava almeno una solidarietà morale che in realtà nessuno le concede. La Bruck tuttavia non può ammetterlo che le sofferenze della Shoah siano assimilate a quelle delle tante vittime civili della guerra, se corrisponde a verità che la Shoah fu uno sterminio deliberato, sistematico con oltre di sei milioni di vittime civili, colpevoli unicamente di appartenere alla razza ebraica.

   Edith si ritroverà in Ungheria a convivere una volta presso un fratello, una volta con una sorella stupida e benestante cui non importa nulla dell’Olocausto, ognuno di loro troppo impegnato nella propria vita. Sarà proprio da quest’esperienza di mortificazione aggiuntiva che Judith deciderà di scrivere, davanti alle macerie morali ed emotive causate dalla guerra. Il mondo le appare estraneo, se non nemico, l’antisemitismo per nulla debellato, la vita durissima dovunque per chi come lei sopravvive del tutto priva di mezzi. 

La Bruck condanna in termini netti questa deliberata estraneità dei suoi stessi familiari che non hanno vissuto come lei l’esperienza del lager, vive questa negazione dei fatti con uno sconcerto che somiglia ad una condanna aggiuntiva a quella dei carnefici, e quando deciderà di insediarsi in Israele si scontrerà questa volta coi muri di gomma dell’indifferenza etica, dell’avidità di donne e uomini, della bieca misoginia imperante nella neonata Nazione di Israele, del pregiudizio sociale nonostante i proclami di un nuovo umanesimo socialista della sua fondazione , si sposerà per evitare il sevizio militare salvo separarsi dal marito subito dopo, un marito rilevatosi violento e vanesio, Judith quindi tornerà a fuggire, andrà in tournée in Grecia e Turchia poi in giro per l’Europa al seguito di un corpo di ballo sino all’approdo in Italia, a Napoli ed infine a Roma, dove grazie alle sue conoscenze linguistiche diverrà direttrice amministrativa di un centro estetico frequentato dalla Upper class e dalle nuove star del cinema rinascente, con una titolare anch’essa ebrea che si rileverà un altro esempio di sprezzo classista e abuso d’autorità sino alla disumanità più conclamata, infine l’incontro con il compagno di una vita, il poeta e regista Nelo Risi, un sodalizio artistico e sentimentale che durerà sessant’anni, l’uomo che sposerà dopo aver ottenuto il divorzio e il cui incoraggiamento e la statura intellettuale le permetteranno di sentirsi scrittrice e di riscrivere l’intera sua esperienza da deportata. 

Fino a giungere all’oggi, meditando sui pericoli della risorgente ondata xenofoba dove in una spiazzante e terribile lettera a Dio, la Bruck mostra senza reticenze i suoi dubbi, le sue speranze e il suo auspicio intatto di un mondo più umano in cui l’orrore della Shoah come pure lo squallore perdurante dell’ingiustizia sociale non vengano mai più obliterati. ‘Pietà sì, verso chiunque, odio mai, per cui sono salva, orfana, libera’. 

Ciò che risalta in questo libro metabolico e sincopato consiste propriamente in quest’ostinazione alla vita nonostante gli orrori, nonostante il male di vivere delle nostre società inviluppate dallo scempio dell’egoismo e dell’avidità, la vita, pare dirci la Bruck, è troppo breve, e così possente è l’istinto di amarla, che sarebbe un peccato mortale quello di sprezzarla solo perché ne siamo stati vittime in un dato momento. Infine anche il perdono fa parte integrante della nostra emancipazione verso l’amore che è l’amore intatto ed intangibile verso gli uomini come verso i fiori e gli animali e tutta la Natura. È questo ad averla salvata dentro il lager, questa umanità ostinata, irrefragabile quanto partigiana che non si sarà mai lasciata abbattere, che lo sconforto di un momento non avrà reciso, che non concederà mai la vittoria al sopruso, al primato del Male, che tenacemente terrà fede solo a questo sacro comandamento:  amare la vita e l’altro, perseguire sempre la speranza del domani, quella del risorgere dalla terra che equivale allo scongiurare la morte.


Il pane perduto, Edith Bruck, La nave di Teseo, pag.126, 16€