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Edurne Portela anteprima. Con gli occhi chiusi

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Con gli occhi chiusi di Edurne Portela ci trasporta in un unico luogo: Pueblo Chico, una piccola città abbarbicata sulle pendici di una montagna scoscesa, talvolta avvolta dalla nebbia o coperta di neve. Questo luogo apparentemente ordinario non è immune dalla scomparsa di animali e persone.

È qui che Pedro, un anziano protagonista, risiede e custodisce segreti legati alla violenza che ha afflitto Pueblo Chico per decenni.

Quando Ariadna arriva nella città con motivi inizialmente poco chiari, Pedro la osserva attentamente mentre lei, gradualmente, scopre i propri legami con la storia sepolta del luogo.

Acuta l’analisi del rapporto col passato: “Nel paese dai confini invisibili che segnavano la linea di separazione tra essere e non essere ci sono luoghi che ancora ricordano, luoghi dove, se ti fermi ad ascoltare con attenzione, puoi sentire voci che raccontano cose del passato. Ma devi volerle ascoltare. Purtroppo, riescono a sentirle solo coloro che già conoscono le storie di questi luoghi. Gli altri, chi è stato causa delle vicende o chi le conosce ma non ne parla per paura o per vergogna, negano l’esistenza di queste voci”.

L’incontro tra passato e presente, tra Pedro e Ariadna, diventa il fulcro di questo romanzo, in cui Edurne Portela esplora la violenza che, nonostante abbia modificato irreversibilmente le vite dei personaggi, apre anche la possibilità di uno spazio in cui solidarietà e pacifica convivenza possono fiorire.

Carlo Tortarolo

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Mi guardano e mi sorridono. Mi parlano a voce alta e molto lenta, come se fossi lo scemo del villaggio. Mi guardano e mi sorridono, lei mi ha salutato con la mano, da lontano, lui non lo fa mai. Io ho alzato una stampella come se fosse la mia mano e mi sono avvicinato, a piccoli passi, verso di loro. Quando sono arrivati in paese erano loro ad avvicinarsi a me, ma adesso sono rimasti lì, muovono i piedi impazienti, anche se sorridono. Mi sa che non li vedevo da un po’. I giorni passano e a volte non mi rendo conto di quanti ne sono passati. Torno non so da dove, se da un pensiero o da un sogno, e ho l’impressione di aver trascorso molto tempo con gli occhi chiusi, come se per un po’ fossi morto, perché non so dove sono stato né con chi, se ho pensato o mi sono mosso, se ho mangiato o cacato. All’improvviso mi accorgo che sto così, con gli occhi chiusi, e so che sono vivo solo perché sento il mio odore. L’odore del mio corpo. Ma potrei benissimo essere morto e in decomposizione. Potrei benissimo trovarmi sottoterra. Invece respiro, nonostante sia un’aria sporca, e muovo le mani nello spazio e capisco di non stare in una bara. A quel punto apro gli occhi e vedo le cose, a volte cose che mi sono familiari, come la tazza e il libro e il tavolo e la porta e il secchio. È bello riconoscere la mia tazza, il mio libro e la porta di casa e il mio secchio. Allora mi alzo e tocco le mie cose, le accarezzo, e ognuna mi parla e mi ricorda il passato e io rispondo raccontandole i miei dolori.

Nei giorni in cui succede mi sento bene. Come oggi. Oggi è uno di quei giorni. Ho raccontato al secchio dell’acqua del giorno in cui mia madre l’ha abbandonato in mezzo alla strada e non è più tornata e l’ho raccolto io il giorno dopo perché era rimasto lì, abbandonato in mezzo alla strada, e nessuno si era azzardato a riportarlo a casa mia, perché forse pensavano, come pensavo io, che lei sarebbe tornata a reclamarlo. Ma l’ho dovuto raccogliere io, il giorno dopo che lei l’aveva abbandonato, e sistemarlo in casa. E lì è rimasto, in mezzo alla cucina, fino a che l’acqua non è evaporata. E quando l’acqua è evaporata tutta, io ti ho lasciato in quell’angolo, secchio, e non ti ho più usato. Altri giorni è il libro a raccontare perché, ovvio, è un libro ed è fatto per questo. Un giorno mi ha confessato che l’ho letto un centinaio di volte ma che il merito non è suo perché è l’unico che ho. Questa osservazione mi ha dato un po’ fastidio perché non tiene conto della mia fedeltà e dello sforzo che ho sempre fatto per capire anche le parole che non conosco. Potevo abbandonarlo, come mia madre con il secchio, o esserne annoiato, eppure, fino a che ci ho visto abbastanza, ne ho lette almeno dieci pagine ogni sera, a volte di più. E adesso che non posso leggere lo accarezzo ogni volta che lo riconosco. E lascio che mi racconti le sue storie. Hanno smesso di avvicinarsi a me, devo farlo io e a volte quando arrivo dal loro lato della piazza si sono già allontanati, indietreggiando a poco a poco, e poi lei, lui no, lui mai, lei mi fa ciao con la manina e si girano e accelerano il passo e scompaiono dietro l’istituto.

Siccome ci sono giorni in cui non riesco ad aprire gli occhi, a volte penso che ci saranno anche giorni in cui parlerò con le mie cose senza rendermene conto e questo pensiero mi angoscia, perché non so quali storie potrei raccontargli, quali segreti mi sfuggiranno. O che ci saranno addirittura giorni in cui uscirò in strada e invece di parlare con le mie cose parlerò con la coppia che adesso mi guarda e mi sorride. E, siccome in quei momenti non me ne rendo conto, magari finirò per raccontare i miei segreti anche a loro, a lei. Questa possibilità mi angoscia ancora di più. Ma finché mi guardano e mi sorridono, come adesso, e lei mi saluta, suppongo che va tutto bene, che non ho raccontato niente.

A volte vedo la faccia di un vecchio e non so se è la mia o quella di mio padre. Ma non può essere quella di mio padre perché vecchio non lo è mai stato. Allora penso che magari è la mia faccia e allungo la mano e sì, è il mio riflesso nello specchio. Adesso no, adesso sono io a specchiarmi nei loro visi. Appena mi avvicino e la guardo negli occhi, guardo lei, come adesso, vedo quello che c’è dietro, e non è un sorriso. Sono sempre stato capace di vedere cosa c’è dietro gli occhi. Fin da bambino, quando è cominciato a capitarmi di chiudere gli occhi per molto tempo, ho visto più di quanto abbiano fatto le altre persone. Vedo perfino cosa c’è dietro gli occhi dei morti.

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