Mi trovavo in Uruguay e ascoltavo alcune signore sedute non lontano da me, discutere, in spagnolo off course, sulla vera identità della Ferrante. Ferrante, Ferrante, il nome era ripetuto, citato, ricordato con ammirazione; mi sono resa conto che mi mancava qualcosa, che stavo invecchiando senza aver mai letto nulla di questa misteriosa scrittrice, che forse è uno scrittore, no, sono una coppia, lei insegna all’università… e via dicendo anzi, elucubrando.
Sono passati mesi, mi sono dedicata a Bolaño, a Brokken, Spinelli, Isaac Singer e inaspettatamente GP Serino mi fa omaggio di alcuni libri, ci siamo dovuti fermare un po’ per il virus e ora siamo affamati, carenti.
In cima alla piccola pila di volumi c’è La vita bugiarda degli adulti di Elena Ferrante!
Naturalmente l’ho preso, rigirato, infilato nella borsa che mi accompagna in ogni spostamento e a Lugano, in un bel giardino pieno di fiori mi sono immersa nella lettura. Due giorni, a intervalli perché i doveri sociali incombono, ma subito a ri-immergermi in quel fiume di parole, forse anche troppe, che accompagnano la vicenda e delineano il romanzo. Tanti personaggi, una famiglia, una ragazzina che scopre amaramente la vera vita, al di fuori e al disopra delle bugie, delle convenzioni degli adulti. Detta così sembra facile, ma la vicenda è estremamente complicata da personaggi che irrompono prepotentemente e interrompono il regolare flusso di vita di una famiglia, che famiglia non è, ma si scopre strada facendo, e la frantumano.
Da subito ho sentito pesare, nell’economia del racconto, l’eccesso di parole, come se non fossero mai sufficienti per descrivere, scavare, portare alla luce i moti dell’anima, che si rivelano terremoti. Forse perché amo la prosa semplice, forse perché Ivy Compton Burnett è una maestra per me, forse perché anche, e persino, Manzoni ha detto tanto con poche parole ho sentito crescermi dentro un sottile senso di disagio, sempre più forte mano a mano che i personaggi che parevano definiti diventano indefiniti, incoerenti, e mi è parso di tornare a tanti anni fa, a una telenovela brasiliana, così rozza da essere insuperabile: Esmeralda, dove si intuiva che in ogni puntata il regista o chi per lui decideva, last minute, che cosa sarebbe successo. Così mi pare di questo romanzo, che parte da un’idea, anche una buona idea, dai vagabondaggi di una ragazzina che diventa cinicamente donna (ma Moravia l’aveva già così ben raccontata ne La noia), dei suoi esperimenti con il sesso, con l’amore, delle bugie degli adulti, delle loro fragilità e incoerenze, ma senza che i personaggi acquistino una vera dimensione e le loro vite non assomiglino a dei tentativi letterari ma delle vere vite. Vanno e vengono, mutano, ma non c’è logica né maturazione in questo procedere, c’è fatica. C’è il bisogno di portare a termine un nuovo romanzo al quale però manca una vera ispirazione, una necessità. Lo scrittore, il vero “scrittore” deve scrivere per liberarsi della storia che gli è cresciuta dentro, le sue parole diventano essenziali, ecco, il “Verbo”. Che si incarna, è concreto e genera vere storie e vere vite. In questo romanzo le vite sono raccontate ma non vivono, le parole, tante, troppe, non creano, non hanno quel ritmo che rende “necessario” un romanzo. La costruzione è sapiente, ma è come un castello di carte, è vuota.
Ho chiuso il libro che avevo affrontato con entusiasmo e poi con delusione, fedele al mio impegno di portare a termine la lettura, anche se mi costa fatica. Mi dispiace, è come se avessi perso un’illusione, non ascolterò più i discorsi letterari, credo che non leggerò un altro libro di Elena Ferrante.
1 luglio 2020
Carla Tolomeo Vigorelli
Recensione al libro La vita bugiarda degli adulti di Elena Ferrante, Edizioni e/o, 2019, pagg. 336, euro 19.