Tundra è la città-bioma perfetta. Utopia architettonica di rettilinei, colori tenui e pareti asettiche, un agglomerato urbano in cui la linearità dell’esistenza segue un ciclo ricorsivo, in apparenza perfetto. Culla di strade percorribili all’infinito e orizzonti ovattati, progettata per garantire e ottimizzare le capacità produttive dei suoi abitanti inserendoli in un ciclo rinnovabile lontano dal disordine degenerativo delle vecchie metropoli, questo luogo è il protagonista principale del romanzo d’esordio di Elena Giorgiana Mirabelli.
Progettata dall’architetta Marta Fiani, Tundra, è il sogno di una mente assuefatta dalla prospettiva di un futuro razionale, equilibrato, ottimizzato in ogni suo processo. Alla base, vi è l’idea che il perimetro abitativo in cui trascorriamo le nostre esistenze possa influire sulla nostra psiche e definirci in quanto individui, un concetto su cui si fonda l’intero progetto urbanistico della Fiani. Un’idea di città riproducibile all’infinito, quindi, sostenibile all’interno di un’atmosfera controllata in cui luci, odori, cibi, arredamento e stile di vita confluiscono a creare un unico ecosistema volto a sedare le pulsioni. Il controllo come pratica per un’esistenza felice e perfetta. Ma quando il processo progettuale di questo spazio si riduce a una mera sequenza di formule, algoritmi ed equazioni matematiche, quando la sua realizzazione è solo frutto di un processo atto ad annientare qualsiasi forma di aggregazione, qualsiasi tipo di personalizzazione e identificazione individuale, quando il tutto si può sintetizzare in una sequenza riproducibile e reiterativa, la domanda sorge spontanea: cosa resta del libero arbitrio?
Forse è proprio questo quesito che spinge Diana, nuova inquilina dell’appartamento affidatole dal sistema Tundra, che un tempo fu di Lea, figlia di Marta Fiani, a intraprendere la ricerca su cui poggerà l’intera narrazione. Muovendosi tra vecchi archivi e scatole (le forme geometriche contenitive ritornano), Diana ricostruirà la biografia di Lea e Marta, attraverso un transfert generazionale in cui le personalità delle tre generazioni di donne si sovrappongono, si scontrano, si fondono, generando uno stordimento emotivo e temporale che si ripercuote anche nel lettore. L’assenza di una trama non pesa a una narrazione che procede per frammentazione. La distopia permeante in tutto l’ecosistema di Tundra ci viene raccontata attraverso scritti, lettere, estratti minuziosamente documentati (con tanto di riferimenti bibliografici) frutto di una planimetria illuminata e consapevole su cui l’autrice getta le basi dell’intero romanzo. Una città-organismo, quindi, che si nutre delle risorse vitali dei suoi stessi abitanti.
Gli abitanti di Tundra, così come quelli delle altre quattro metropoli citate nel romanzo (Taiga, Mangrovia, Foresta, Isola), sono formiche operanti in favore di una felicità collettiva livellata sulle superfici di un Cretto di Gibellina dai confini sempre più indefiniti.
L’inclassificabilità dell’opera in un singolo genere contribuisce ad aumentarne il fascino: Configurazione Tundra è distopia, sociologia, urbanistica, topografia dell’anima, tutto filtrato attraverso una lente controllata che si frappone al lettore come a volerlo tenere distante, lasciandosi andare in brevi stralci onirici solo durante le sequenze più surreali dei sogni.
C’è un senso di quiete apparente che accompagna questo viaggio nella mente e nelle vite di Lea, Diana e Marta Fiani, come il riverbero pruriginoso che si alza dall’asfalto bollente. L’impressione che molto non sia detto, che spetti al lettore riempire quei silenzi e i vuoti lasciati tra i paragrafi, così come un si riempirebbe lo spazio di una casa in cui vige ancora il concetto di libero arbitrio, miccia essenziale per garantire un ciclo vitale che non sia un semplice loop. L’uroboro, appunto, o ancora, il nastro di Moebius, simboli espliciti che ritornano alla mente durante tutta la lettura di questo centinaio di pagine dall’incedere marziale, in cui la prosa appare distillata ed epurata da ogni parola in eccesso, mentre un sottile senso di angoscia si fa strada tra i capitoli, richiamando alla riflessione. E così le pagine iniziali si moltiplicano e la voglia di tornare a riprendere in mano e sfogliare ancora, e ancora, anche a lettura conclusa, questo brillante esordio, è forte, necessario. Allora ben venga il caos, l’indecisione, il dubbio. Perché a quel punto tornare a Tundra sarà inevitabile, per sfondare il rigore stordente di quelle luminose pareti e scoprire quanto può essere complesso e stratificato quello che vi si nasconde dietro.
Stefano Bonazzi