Con la sua penna degna del miglior Jason Polan disegna mondi assurdi e attualissimi, surreali e contemporanei, lacerati nell’intimo da un insaziabile desiderio di affermazione e successo. Come un abile giocoliere trascina angeli e demoni, giganti e pigmei, polli spennati e aquile dalle ali mozzate, mostri e caricature del nostro tempo, spregiudicati arrampicatori sociali, in una “commedia magnetica” che niente lascia al caso, dove perfino i più bravi a non farsi male cadono.
Nei suoi romanzi ci si sente fin da subito come catapultati su un set cinematografico. I personaggi sono vivi, li senti parlare davvero, come se ti si materializzassero davanti un po’ tragici, un po’ comici ma profondamente veri. Piglio enigmatico, sguardo ammaliante, un po’ Dorian Gray un po’ Garrett di Twilight. Enrico Dal Buono, classe 1982, ferrarese trapiantato a Milano, dopo aver collezionato tre lauree (in Scienze politiche, in Filosofia e in Lingua e letteratura russa) approda alla Scuola Holden. E qui inizia la sua vera vita: quella da scrittore. Uno scrittore originale, illuminato, che danza sul fango delle miserie umane senza snobismi da radical-chic.
Il suo ultimo romanzo, Siete tutti perdonati, edito da La nave di Teseo 2020, satira feroce del nostro tempo ambientata tra Londra e Milano con una narrazione parallela che ritorna all’era dell’uomo di Neanderthal, ha messo d’accordo pubblico e critica. E’ tra gli undici libri consigliati da Elle Decor per gennaio ed è pure finito sulla prestigiosa enciclopedia Treccani.
Elena Orlando
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Enrico Dal Buono, come nasce il tuo rapporto con la scrittura?
Beh, all’inizio scrivevo sciocchezze un po’ come tutti. Poi col passare degli anni mi sono gradualmente reso conto che questa mia passione poteva diventare più di un hobby. A un certo punto, dopo una tesi di laurea con Franco Volpi sembrava che io dovessi finire a lavorare nel settore commerciale della moda per Armani. Ho anche fatto esperienza di assistente venditore in showroom. Finché sono entrato alla Scuola Holden. Lì mi sono reso conto di che cosa mi piacesse fare veramente, cioè scrivere.
La scrittura secondo te svela o inganna?
Entrambe le cose. Di sicuro inganna, è fiction per definizione. Per dirla con Nabokov, la letteratura è iniziata il giorno in cui un Neanderthal scappo’ urlando al lupo al lupo senza che in realtà ci fosse alcun lupo grigio attorno a lui. E’ quindi una finzione, una modificazione della realtà. La scrittura ricrea un mondo deformato che ha al suo interno delle proprie regole. Però allo stesso tempo deve svelare la vera visione del mondo che ha colui o colei che scrive. In questo la scrittura dev’essere spudorata.
“Dal Buono” al cattivo il passo è breve. E il tuo ultimo romanzo, Siete tutti perdonati” (La nave di Teseo, 2020) a dispetto del titolo, è una fotografia impietosa dei nostri tempi. Tra ciniche operazioni di marketing e slogan “acchiappa consensi”, un desiderio sfrenato di affermazione e successo fa coppia con una spietata logica del profitto che, senza troppi scrupoli, se ne frega di tutti.
Insomma, in che razza di mondo viviamo?
Non credo che l’essere umano sia molto cambiato. La mia è una riflessione su che cosa ci rende esseri umani. In fin dei conti, siamo rimasti quello che eravamo nella preistoria. Siamo tutti coinvolti in una spietata lotta per la sopravvivenza e lo facciamo utilizzando i mezzi che abbiamo a disposizione. Per cui perfino far leva sulla buona coscienza diventa uno stratagemma per far soldi e affermarsi, fare la scalata sociale. Però è anche un libro che ha anche una folle speranza. Crede che ci sia una dimensione, seppur invisibile, in ognuno di noi. Ed è proprio questa dimensione quasi impercettibile che alla fine ci salva.
Walter, il protagonista, è un millennial nato negli anni Ottanta, che ha un’idea geniale: fondare la Beautiful Loser, start up che si basa sull’elemosina ai barboni. Un sistema fondato sull’ influencer marketing applicato agli homeless. Ma Walter potrebbe tranquillamente essere uno di noi: un arrampicatore sociale che dalla provincia arriva in città con una gran fame di successo.
Tu sei nato nell’ ‘82. Come definiresti la tua generazione?
La definirei una generazione di creature mitologiche con le gambe analogiche e il busto digitale: creature a metà tra passato e futuro. Conoscono il mondo che esisteva prima della rivoluzione digitale e ne provano una certa nostalgia. Sono cresciuti con promesse di benessere ma poi si sono trovati a fronteggiare grandi crisi mondiali. Sono come dei viziati che poi sono stati stuprati dalla realtà e che devono fare i conti con un mondo che con la rivoluzione digitale negli ultimi anni è diventato totalmente un’altra cosa. Questo li rende nostalgici, narcisisti, profondamente insicuri e senza fissa dimora intesa a livello di spazio ma anche di tempo.
Per promuovere il tuo ultimo libro tu stesso, in centro a Milano, per un giorno hai vestito i panni di un clochard. Questo tempo di Pandemia ci restituisce contraddizioni enormi che scavano voragini tra chi vive in mezzo ai cartoni vestito di stracci e scarpe rotte ed è sempre più all’angolo e chi invece ancora può fare lo slalom tra i negozi dell’alta moda e i sacri templi del lusso meneghino.
Che cosa si prova stando seduti per terra e, per una volta nella vita, ai margini?
A dire il vero, io ho fatto un anno di volontariato al centro Caritas di via Sammartini a Milano. Beh, quello che noti subito nello sguardo degli altri è il fatto che non possono accettare che tu sia uguale a loro. Devono trovarti per forza un difetto (che sia una menomazione fisica o mentale, che tu venga da una zona di guerra, ecc..). Qualcosa che li renda consapevoli di una diversità incolmabile. Cercano di immaginare che tu in quelle condizioni sei totalmente diverso da loro. Ne hanno bisogno per credere che mai potrebbero finire anche loro come un barbone. E invece purtroppo alla Caritas ti assicuro che ho visto gente che da una vita normalissima a un tratto si è ritrovata a vivere da mendicante e a non avere più nulla. Poi, si sa, i clochard hanno un fascino doloroso tutto loro: sono vicini e incomprensibili allo stesso tempo.
Però alla fine siamo tutti perdonati…
In tutti c’è una possibilità di salvezza non definibile in termini razionali. Non si vede ma c’è.
In una delle tante recensioni al tuo ultimo libro un utente su Amazon ha scritto: «Scrittura sublime, si legge bene, ironico. Valutazione eccellente. Bravo e pure bello l’autore». Quanto aiuta la bellezza in questo caso al maschile (di solito questa domanda si fa sempre alle donne…) anche nel mondo editoriale?
In realtà è un po’ un’arma a doppio taglio. In un mondo basato in gran parte sull’apparenza, certo, una presenza gradevole non guasta. Ma alla fine non cambia niente nella tua vita. Io credo anzi che buona parte del mondo della cultura la guardi con un certo sospetto, perché non corrisponde allo stereotipo dello scrittore un po’ sfigato e infelice. Quindi, insomma, viene vista con sospetto.
Qual è il tuo pensiero ricorrente oggi?
Scrivere la più grande storia di questo secolo.
Come possiamo sopravvivere secondo te a questi giorni sospesi e incerti?
Di sicuro avendo dei progetti per il futuro. Credo che in questo clima così sospeso lanciare il cuore oltre l’ostacolo anche pensando a un proprio progetto personale sia fondamentale. Viviamo come sulle sabbie mobili, immersi in un eterno presente. In questo momento è indispensabile inventarsi qualcosa che ti riempia le giornate: scrivere un libro, progettare un figlio, ecc. In poche parole, dare una dimensione al nostro tempo.
In che modo stai vivendo questo periodo così complicato e difficile?
Devo dire che sono stato abbastanza fortunato. Ho scritto tre libri, organizzato e svolto regolarmente le mie lezioni. Insomma, diciamo pure che in questo periodo sono molto impegnato.
Tu sei anche docente di scrittura creativa alla Naba di Milano e di storytelling alla Scuola Holden di Torino, che tu stesso hai frequentato nel biennio 2010- 2012.
Che cosa insegni ai tuoi allievi?
Insegno a raccontare l’assurdo, oppure come si può trasformare la propria vita in un romanzo o come si scrive un racconto. Analizziamo vari testi e serie tv. La narrativa è un tipo di scrittura molto particolare. All’inizio non si ha mai esattamente presente di che cosa si tratti. E spesso in fase iniziale saltano fuori ibridi tra pagine di diario, riflessioni, pensieri sparsi. Invece la scrittura si basa principalmente sullo sporcarsi le mani con la realtà. E la fatica più grande è quella dell’Incarnazione: incarnare anche i concetti più astratti, complessi e ampi in qualcosa di terreno, palpabile e rappresentabile. Più è assurda e inverosimile una situazione, più la descrizione dev’essere dettagliata.
Che cosa ti senti di dire a chi sente l’esigenza o addirittura l’urgenza di scrivere?
Ognuno trova i propri modi per rendere più sopportabile l’esistenza. Il grande salto è trasformare un tuo passatempo in qualcosa che dia piacere soprattutto agli altri, prima che a te stesso. La scrittura dev’essere un atto d’amore verso il prossimo più che verso di noi. Per questo serve il talento ma anche la tecnica per rendere più comunicabile agli altri la propria ispirazione. Bisogna acquisire la capacità di trasformare il particolare della propria esperienza nell’universale, in modo che tutti si possano rispecchiare nella storia che hai deciso di raccontare.
Qual è il tuo libro del cuore? E quello che più ti ha influenzato?
Sicuramente I Fratelli Karamazov di Dostoevskij. Mi è servito come ponte per passare dalla filosofia alla letteratura.
Lo scrittore più amato?
Domenico Starnone a cui sono molto legato. Ha la capacità di comunicare i concetti, è davvero molto bravo a insegnare. E mi ha fatto migliorare tantissimo.
Sei più mister Gwyn di Alessandro Baricco o il lupo della steppa di Hermann Hesse?
Senza alcun dubbio il lupo della steppa.
Due aggettivi per definirti in questo momento?
Ansioso e speranzoso.
“Quanto vano è il mettersi seduti a scrivere quando non ci si è posti eretti a vivere”. Citazione di Henry David Thoreau. Tu sei d’accordo?
Assolutamente sì. La stessa lettura è vita, può comunque essere un’esperienza vitale. Vivere è essenziale per avere la materia bruta da trasformare in qualcosa di interessante. Poi certo, ci vuole il colpo d’occhio, la capacità d individuare il dettaglio che rende qualcosa unico e irripetibile.
Che consiglio di lettura daresti al premier Conte?
Gli consiglierei di leggere con molta attenzione L’ antilingua di Italo Calvino, in cui si parla di quel burocratese che rende ogni concetto nebuloso ed è finalizzato a nascondere la semplice sostanza della realtà.
Ultima domanda: qual è la prima cosa che hai fatto all’alba del 2021?
Ho guardato fuori dalla finestra, con la speranza che non fosse grigio come oggi.
Intervista a cura di Elena Orlando