La silloge poetica di Elisabetta Destasio Vettori è attraversata da un respiro inquieto, chiusa in una sorta di liquido amniotico dove si depositano tempi di attesa e stadi di processo creativo. L’opera presenta diverse possibili letture se la si fa scivolare in un’onda lunga che lambisce più piani: dolore – morte, attesa-partenza, presenza-assenza che si offrono non come inconciliabili dualità ma animati da una corporeità intensa che si fa scandaglio diretto a sondare gli abissi di una psiche profanata dal dolore. Uno scavo lento tra le ferite: lei, funambola sul cuore, circondata da un vuoto imperioso, il ventre aperto alle intemperie della vita, impara dalla pelle, dalle viscere, percorrendo tragitti dolorosi e tortuosi tra ossa, tessuto epiteliale, gola, atri cardiaci, per consegnarci la parola che sanguina, che scheggia, che taglia con violenza. È voce che esce dal bozzolo e si fa verso feroce, scavato, vetroso.
Grumi di vita compongono una personalità poetica che fa del corpo il centro dell’intimo dialogo che s’instaura con lo scorrere dell’esistenza, segnata da persone che non ci sono più: una madre, dalle carezze assenti, ossa dolenti fino dentro la memoria, vista nel lento fluire del suo definitivo addio; un padre, vuoto improvviso, incolmabile, indicibile, indescrivibile […]. L’urto/è avvenuto scrivendo/il tuo nome – nella casella richiesta/accanto alla data del tuo decesso/[…]. così ho battuto la faccia contro la tua morte,/dopo sette mesi, con le tue ceneri nell’urna chiusa/- al cimitero monumentale/col caldo che opprime le meningi/e riporta alla tua casa in Africa,/mentre chiedono le mie credenziali di orfana/ sul modulo per la successione[…](pag. 31). Figure genitoriali dalle quali è difficile separarsi, perché non c’è esperienza e non c’è memoria, nel corpo, di un tempo senza di loro. La poesia diventa sottile colatura d’inchiostro nero sul vetro, non guarisce, non conforta ma fa luce quando scava nella carne ed è una luce forte, accecante, come quella descritta nei versi di Josif Brodskij che costituiscono, insieme a quelli di Claudia Ruggieri, l’incipit della raccolta […]Io sono stato a Roma. Inondato di luce. Come può soltanto sognare un frammento! Una dracma d’oro è rimasta sopra la mia rètina. Basta per tutta la lunghezza della tenebra.
Il dominio sicuro dell’io poetante, pronto a far deflagrare il silenzio per mettere a nudo emozioni, sentimenti illusi o disillusi s’impone, incendia le ossa . Ogni parola racchiude un universo di senso, è corpo celeste contenente un mondo da scoprire. Trasportato dal grecale che talvolta soffia su Roma, il lettore avanza tra i versi, carichi di potenza drammatica, dal ritmo ascendente e discendente, avvolti da un’aura enigmatica e sospesi nella città eterna, con la sua verticalità, la sua luce fertile, i suoi cieli tersi, le vertebre conficcate nelle stesse vertebre della poeta. L’Urbe è vista nell’alternarsi delle stagioni, nell’incurvarsi dei platani, sul lungotevere, spesso attraversata da voli di gabbiani, allodole, upupe che sembrano migrare in un altrove o vivificata dall’esplodere di fioriture di glicini, pitosfori tigli, magnolie e betulle. Roma è l’augurio migliore/che io possa farti, il luogo in cui ti aspetto/ [dannazione e salvezza sacro e profano]/il becco di un imbuto/un dedalo dove infilarti/per fuggire da ciò a cui appartieni/- da certe lattiginose scaglie/Roma ti sarà madre/arma senza lama/ma lacerante/ti accecherà di luce/per poi restituirti tutto intero/a portici – in ombra e sole (pag. 29).
La silloge è densa di memorie, immagini, tracce di una presenza umana rarefatta, descritta tra nostalgie di partenze e restanze. Figura emblematica che assume consistenza in un suono, un gesto, un’atmosfera, un furor di sentimenti che giunge a noi come vento aspro e selvaggio, scatenato per disperdere le esatte architetture delle cose: […] Potessero le mie dita/avvinte da fiducia/infilarsi nelle tue stanze/potessi entrare in me/spargere la tua storia/- seme t’ingoierei/ come fossi fertile/nudo giardino//nudo corpo nel tuo […] (pag. 107).
La memoria è un filo conduttore che non si smarrisce, non sfugge, non muta direzione ma scuote “l’abisso chiuso tra le viscere”.
Mi chiedo se la mia ossessione di conservare/non sia dovuta a un dubbio/circa la memoria. Vado avanti. Dimentico. […] La citazione è di Anaïs Nin ma tutta l’opera è costellata da citazioni di autori che hanno evidentemente segnato il percorso intellettuale della Destasio Vettori: Paul Celan, Patrizia Cavalli, Giovanni Raboni, Biancamaria Frabotta, Elio Pagliarani e tanti altri. Maestri meravigliosi, visti tutti su uno sfondo ampio come tessere di mosaico messe insieme da anni di letture tenaci, di passione conoscitiva. L’autrice spazia con rigore e sapienza intorno a concetti complementari a quelli che costituiscono i pilastri della raccolta, non ultimo la resa al dolore dell’assenza : Mi dimetto/dalla tana scavata come/rifugio/mi dimetto dal silenzio/dai rami bassi di spine di acacia/dalla miseria mi dimetto,/dal verso stridulo/ dell’assenza/alzo una bandiera bianca/sul letto, sui corpi,/sul petto/mi arrendo, naufraga/di dolore taciuto/davanti all’evidenza. Trovare un equilibrio di senso per non inabissarsi, fare i conti con la nostalgia delle partenze e delle restanze, cercare il dialogo con un corpo in una danza fatta di passi sospesi. Sapere che lo spazio vuoto separa e collega, che ci vuole intimità con il vuoto per poter creare, trasmettere, cucire gli strappi, le lacerazioni. Nel mezzo, l’attesa: […] lascio aperta la porta e/la luce accesa/che tu possa entrare/bandire il vuoto attorno/come un grillo/una falena /un gigante piccolo- addormentato sui gomiti (pag. 116).
Non si avverte fragilità, in questo libro che si attesta come l’opera di una maturità ormai raggiunta; -scrive nella prefazione Roberto Deidier –ogni frase è come scolpita, ogni singola immagine è un distillato finanche feroce. Ma questo si diceva sul principio: c’è una necessità, e quindi una libertà, anche nella spietatezza.
Rossella Nicolò
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Elisabetta Destasio Vettori
DA LUOGHI PROFANI
Prefazione di Roberto Deidier
Les Flȃneurs Edizioni, 2023, pp. 118, €12