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Elisabetta Giromini anteprima. Centomila tulipani

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Consigli per il viaggio: “«L’Iran è un Paese fondamentalista musulmano. Dovrà sempre indossare il velo perché è donna. Gambe e braccia coperte. Niente vestiti succinti: maglie lunghe, fino al ginocchio.»”

Le inquietudini di un giovane gay prima del viaggio: «E se uno degli iraniani mi piace? E gli piaccio pure io e non riusciamo a trattenerci, ci imboschiamo da qualche parte e ci prendono e ci portano in prigione…»

Il padre della Storia: “«Erodoto, il primo storico della storia.» «Un calabrese!» interruppe Pablo. «Un greco di Alicarnasso, Mauceri, morto a Turii, nell’attuale Sibari. Definirlo calabrese forse è troppo» mentre Buratti lo ammoniva, Payam ed Ehsan sghignazzavano, non sapevano davvero ridere gli iraniani, non in pubblico, non era educato”.

Gli sfoghi di una mamma: “«Come al solito il regista parte con le sue idee e prende la tangente. E cosa ci sto a fare io che organizzo tutto pezzo per pezzo? Poi a quello gli prende un’illuminazione e noi dobbiamo stare tutti lì a cercare di fare delle facce interessate e ammirate perché mica gli puoi dire che è un’idea di merda, l’ennesima. Ma chi me lo fa fare di andare su quel set tutti i giorni e raccogliere i cocci. Sai come mi sento?»”.

È in libreria Centomila tulipani di Elisabetta Giromini (Morellini Editore 2024, pp. 350, € 20,00).

Elisabetta Giromini, ha una vita cosmopolita divisa tra Cambridge e Bruxelles, dove svolge il ruolo di Research and Innovation manager e startup mentor presso le istituzioni europee.

Elisabetta Giromini, laureata in Scienze Politiche a Roma, ha studiato Relazioni Internazionali a Bruxelles, focalizzandosi sulle politiche sanitarie della Repubblica Centrafricana. Grazie alla sua tesi, ha viaggiato in oltre sessanta paesi, accompagnando una donna medico. Tra i suoi viaggi più significativi, quelli da Ushuaia al Rio delle Amazzoni e lungo la Transmongolica da San Pietroburgo a Pechino. Il suo soggiorno in Iran le ha offerto una profonda comprensione della cultura locale rivelandole la vera immagine dietro la propaganda.

Daria e Payam, studenti di archeologia, si incontrano durante una missione a Persepoli e si innamorano. Dopo gli scontri durante la repressione del movimento verde, Daria perde le tracce di Payam e lo crede morto, ma conserva la speranza di rincontrarlo. Cresciuta senza il padre, Daria si dedica agli studi di archeologia in Italia ma vive nel ricordo di Payam. Quando riceve un’e-mail da lui, si rincontrano a Teheran e riprendono la loro relazione senza sentir il peso degli anni trascorsi lontani. Tuttavia, i loro progetti per una vita insieme vengono complicati dal confronto tra le rispettive culture.

Troviamo la delusione degli iraniani per il risultato delle elezioni considerato discutibile: “Qualcuno alza un braccio verso il cielo e le due dita aperte a V. Pace. Where is my vote? E poi un’altra. Where is my vote? E poi un altro. Where is my vote? E poi tutti insieme. Dov’è andato a finire il loro voto?”

Un libro che parla dei sentimenti umani sempre più complessi nei luoghi di confine tra diversi mondi e di quanto sia difficile orientarsi per le persone tra le infinite strade dell’amore.

Carlo Tortarolo

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Payam sapeva dove trovare suo cugino, sarebbero partiti dalla Facoltà di Sociologia alle 16. Fermò una macchina. «7th Street». L’autista faceva domande, non li avrebbe portati fin là. Serrò più stretto il velo attorno alla testa. Spinse con le dita i capelli sotto al bordo di stoffa. L’autista li lasciò all’incrocio con un parco. Dov’erano finiti gli scavi? quella terra da spostare, i reperti da catalogare… quel mondo piccolo ai piedi della Porta delle Nazioni. Buratti e Pablo, il suo migliore amico. E sua madre, Maura, e la loro casa, e suo padre, che era sempre un pensiero, che non c’era. Non c’era nessuno. Solo la mano di Payam, lungo quei vialoni dove camminavano veloci rasenti al muro. Drappelli di persone con le maglie verdi sul vialone Kordestan. Dov’erano l’esaltazione delle marce, le grida festanti, i giochi dei bambini in strada, i volti sorridenti e i canti e l’allegria diffusa, le danze nella notte? Che non si può ballare in pubblico, che le donne non possono neanche cantare in pubblico. E invece sì, tutto era stato possibile, tutto era sembrato uno scorcio verso il futuro, una promessa.

Dammi la forza. I piedi uno di fronte all’altro. Il selciato sconnesso in alcuni punti. Rischiava di inciampare. Ma a ogni sussulto, la mano stretta. Quella mano nella sua che la riportava alla realtà. «Veloce, Daria». Bisogna andare veloce, verso cosa? Per cosa? Più veloce non posso. Un passo dietro l’altro, rapidi percorrono il vialone e Payam le fa cenno di abbassare la testa, sono come ombre che sgusciano sugli spigoli degli edifici, si insinuano negli angoli tra la strada e il muro. Devono essere invisibili, ancora più invisibili di quanto lo sono i desideri in un Paese vestito di nero. Più veloce, Daria, ho paura.

«Siamo quasi arrivati». Che succederà poi? L’ingresso del dormitorio. Ci sono ragazzi dentro. Parlano tra loro e non ci sono sorrisi. Non ci sono pacche sulle spalle. Sembra che un fotogramma fisso si ripeta minuto dopo minuto. I movimenti sono pochi e, quei pochi, lenti. Cosa vogliono fare?

Arriva Reza e dice quasi sottovoce: «Siamo pronti». Reza con la sua fronte ampia e i mustacchi, i capelli appiccicati di sudore, l’alito è una poltiglia guasta e acida, da quante ore non dorme? «Marceremo fin sotto la residenza di Musavi». Le maglie verdi, le hijab, i teloni. Fin sotto la residenza di Musavi, marceranno. Reza li abbraccia entrambi. Anche l’odore dei suoi vestiti e della sua pelle è guasto. Le sue mani sono sporche.

«Daria, sei una ragazza molto forte.» Fa cenno di no con la testa. Qualcuno grida qualcosa, senza grazia, senza simpatia. È un tono grave. Si avvia. Altri seguono. E poi altri. Reza è già avanti. E poi Payam. E poi Daria. Non stanno facendo niente di male. Camminano, le facce serie, niente cori. Composti. Un passo dietro l’altro. E tanti passi uno di fianco all’altro, e davanti e dietro. Qualcuno alza un braccio verso il cielo e le due dita aperte a V. Pace. Where is my vote? E poi un’altra. Where is my vote? E poi un altro. Where is my vote? E poi tutti insieme. Dov’è andato a finire il loro voto? E Daria cammina, la mano stretta in quella di Payam. Non fanno niente di male. Marciano composti. Marciano delusi ma una speranza ancora c’è. È nel verde delle magliette, in tutti quei corpi, tanti corpi, quanti? Migliaia e migliaia, forse milioni. È lunga questa marcia silenziosa. Una marcia di gente delusa eppure ferma, caparbia. La gente vuole sapere dov’è andato a finire il suo voto. La folla si accalca e si ferma sotto casa di Musavi, è sull’uscio a salutare. La polizia fa da cordone. Saluta quella faccia di vecchio professore, saluta alzando il braccio, coi suoi occhi commossi dietro agli occhiali, con la barba sfatta. Tutta quella gente che ha creduto in lui. E parte un coro, una voce e poi un’altra e poi un’altra. Mir-Hossein. E parole che non può capire. Perché non sa il persiano, Daria, non parla la lingua. È andata a scuola solo qualche giorno. Quelle braccia verso il cielo e le due dita aperte a V. Pace. I cecchini sparano.

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