Affrontare la lettura di un libro concernente la vita vera di chi si è sempre stati abituati a vedere su di uno schermo – piccolo o grande – a recitare, ad interpretare cioè un ruolo, già è di per sé stesso straniante, ancor di più se la persona/personaggio in questione ha legato quasi interamente la sua carriera e il suo nome a qualcosa che è ben più di una parte.
Già nel titolo è presente il termine “maschera”, a indicare quanto di oramai sedimentato in molta parte del pubblico: Fantozzi ragionier Ugo, matricola 7829/BIS, è più di un personaggio interpretato da un attore in grado di farlo superbamente proprio (in questo caso all’ennesima potenza, essendo stato egli personaggio prima libresco che cinematografico nato dalla penna proprio di Paolo Villaggio) ma è bensì assurto ad un ruolo addirittura superiore, equiparato, da critici letterari e cinematografici, appunto alle maschere della Commedia dell’Arte della nostra tradizione teatrale. Un ragioniere involontariamente linguista, anche: non tanto per l’aggettivo fantozziano, entrato a gamba tesa nell’uso comune fin dalla prima proiezione del primo film della serie (1975) ma soprattutto per l’utilizzo di taluni termini, da parte di Ugo e degli altri personaggi della saga, “che prima si intendevano per altro o solo per un significato”.
Il successo, nella vita, si può desiderare ardentemente (e, per ciò stesso, impegnarsi molto affinché arrivi) oppure subirlo. Paolo Villaggio certo appartiene al primo gruppo, impegnato come si è, fin dalla gioventù, nella compagnia goliardica universitaria “Mario Baistrocchi” di Genova. Ma forse, le persone che, per ragioni familiari, lavorative o amicali gli sono state più vicine, un po’ di quel successo lo hanno subito, ma senza mai perdere l’affetto, anzi, la stima, per usare un termine del quale Fantozzi ha fatto uno dei suoi tanti cavalli di battaglia terminologici, per un uomo che, in quanto faber fortunae suae, aveva certo messo in preventivo di poter sbagliare qualche cosa. E non si parla tanto dei comprimari della serie di film sul ragioniere più tartassato del mondo: Milena Vukotic chiamata “Pina” per strada, Anna Mazzamauro cui viene chiesto, dai fan, di apostrofarli “Merdaccia!”, Plinio Fernando costretto a sottolineare il fatto di essere un uomo “a cui piacciono le belle donne, anche molto” e Diego Abatantuono terrunciello “per sempre” grazie a “Fantozzi contro tutti”, terzo capitolo della saga, quanto dei figli.
L’autrice del libro del quale mi sto in queste righe occupando, Elisabetta Villaggio, è la primogenita di Paolo e Maura Albites: sarà la regola della primogenitura, o, forse meglio, quella del rapporto di amore/contrasto (non utilizzo il termine odio banalmente perché mai andrebbe fatto, in contesti familiari) tra padre e figlia ma davvero ella, ed esplicitamente, ammette di avere per certi versi sofferto la fama del genitore. E di aver amato più di ogni altra cosa le vacanze all’estero, in luoghi dove Paolo Villaggio era un semplice padre di famiglia in vacanza con moglie e prole al seguito (anche se, a chi scrive, questo un po’ dispiace, perché in fondo, marxisticamente, gli sfruttati non dovrebbero avere bandiera né colore).
Dal suo racconto ne esce la descrizione di un uomo complesso, spesse volte divorato dall’ansia che cercava di limitare mangiando all’inverosimile nonostante il forte sovrappeso e i problemi di salute da ciò derivanti; un uomo al contempo sognatore e con la testa sulle spalle, di una vis comica tra l’infantile e il cinico, conscio di quanto ampia potesse essere la forbice tra attore e comico ma che entrambi i concetti seppe esperire al meglio delle proprie capacità. Un intellettuale forse un po’ troppo ottimista, avendo messo in mano alla figlia Eros e civiltà di Marcuse quand’era tredicenne, convinto di come sapere e avere concorressero insieme a creare il benessere dell’uomo (scevro dunque da discorsi ipocriti e francescani fuori tempo massimo sul denaro “sterco del demonio” che “non fa la felicità”).
Una persona orgogliosa del proprio successo, coerente nell’ammettere di aver fatto tutto il possibile per meritarselo, ma che sapeva anche e soprattutto essere, squisitamente, semplicemente Paolo! Con la famiglia e con gli amici, fossero questi ultimi in certo qual modo colleghi o quelli di una vita. Per quanto concerne il primo novero, oltre alla sua amata controfigura Clemente Ukmar e alla sarta personale Stella Battista, suonerà banale ma tocca nominarli anche qui: Fabrizio De Andrè e Federico Fellini, Ugo Tognazzi e Vittorio Gassman. Legati così fortemente a Paolo Villaggio forse perché, per quanto inconsapevolmente, ma comunque a loro modo fantozziani nel descrivere quanto e quanti, prima di loro, nelle diverse arti aveva trovato scarsissima cittadinanza.
Una carrellata di foto a colori e in bianco e nero, poste a una buona metà della lunghezza del saggio, ci permette di godere visivamente di quanto abbiamo letto: il Paolo Villaggio attore e comico, marito e genitore, amico e nonno, giovane e meno.
Il testo è infine cesellato da una serie di lettere della figlia al padre: una scritta di getto la notte del 3 luglio 2017, data della dipartita di Villaggio, la seconda un anno esatto dopo, l’ultima il 14 marzo 2020, in pieno lockdown. Lettere inserite pare quasi a mo’ di avviso, come a dire: questo libro è sì per tutti coloro che hanno amato lo scrittore, l’attore a tutto tondo o semplicemente Fantozzi, ma c’è una parte di Paolo Villaggio della quale nessuno tra il pubblico, giustamente, mai potrà appropriarsi, quella di padre!
Alberto De Marchi