Un evento inatteso: “La balena si arenò nelle secche dell’isola durante la notte, emergendo dal mare all’improvviso come un gatto che si intrufola sotto una porta. Nessuno se ne accorse: né il faro con il suo alone di luce a pelo d’acqua, né i pescatori notturni in cerca di merlani e sogliole, né i contadini che pascolavano il bestiame sulla collina all’alba. Le pecore se ne stavano indisturbate sulle scogliere, mentre sotto il mare scuro il corpo della balena riluceva di un timido bagliore verde”.
Il buon vicinato “Una mattina suo padre l’aveva chiamata dai gradini di casa, dove i fratelli la stavano aspettando. Davanti alla porta della fattoria erano stati lasciati sette conigli con le zampe legate dal filo rosso delle trappole. Il vicino li aveva sventrati e riempiti di urina così da renderli immangiabili. I suoi fratelli non le avevano parlato per una settimana”.
Proposte di matrimonio a una ragazza d’altri tempi: «Immagina una vita in cui non peschi e non coltivi la terra e hai le mani liscissime.»
Notizie allarmanti: “Cinquemila truppe britanniche inviate nella regione dei Sudeti, recitava il titolo in prima pagina. C’era anche una fotografia di Neville Chamberlain con le braccia aperte. Il quotidiano era di tre settimane prima”.
È in libreria L’odore freddo del mare di Elizabeth O’Connor (Garzanti 2024, pp. 204, € 22,00) con traduzione di Federica Merati.
Elizabeth O’Connor risiede a Birmingham ed è considerata dal Guardian una delle più promettenti scrittrici emergenti del Regno Unito. I suoi racconti sono stati pubblicati su riviste prestigiose come «The White Review» e «Granta»; nel 2020 ha ottenuto il White Review Short Story Prize. Il suo romanzo d’esordio, “L’odore freddo del mare”, è nato quasi per caso, scritto sui foglietti delle ordinazioni mentre lavorava come cameriera in un bar universitario.
La storia è ambientata alle soglie della Seconda Guerra Mondiale su una sperduta isola gallese, dove un giorno le onde portano la carcassa di una gigantesca balena sulle coste battute dal vento gelido. Manod, una giovane donna, vive qui una vita semplice, dedicandosi al duro lavoro e ai suoi doveri familiari, insieme al padre e alla sorella minore.
L’arrivo di due antropologi di Oxford sconvolge la sua routine: questi studiosi, interessati a documentare le tradizioni locali, le chiedono di aiutarli come interprete dal gallese all’inglese e di fare da tramite con la comunità di pescatori, chiusa e riservata.
Tuttavia, col passare del tempo, la relazione tra Manod e i ricercatori si deteriora. I due studiosi, infatti, sembrano più interessati a creare un ritratto distorto della realtà, mentre la minaccia della guerra e l’inganno del progresso si avvicinano sempre più all’isola e ai suoi abitanti.
Il romanzo è ricco di immagini viscerali, dalle barche da pesca “arrugginite” alle “filo bianco come osso” delle “cicatrici da pesca” sulle mani del padre di Manod, fino ai “petali di grasso blu e malva” dell’intestino della balena.
A questo lirismo si affianca la consapevolezza di come forze al di fuori del nostro controllo plasmino le nostre vite in ogni momento.
O’Connor esplora con costante attenzione le lotte interiori di Manod e il suo straordinario autocontrollo in un romanzo coinvolgente che risveglia l’empatia del lettore.
Carlo Tortarolo
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Venni al mondo sull’isola il 20 gennaio 1920, anche se il mio certificato di nascita recitava 30 gennaio 1920, poiché mio padre non aveva potuto recarsi agli uffici dell’anagrafe sulla terraferma prima di quella data. Imperversava una violenta tempesta invernale e a nessuno era permesso lasciare l’isola. Stando ai racconti di mia madre, quando alla fine riuscimmo a raggiungere il continente, la spiaggia era coperta di meduse, come un sentiero argentato fatto di ghiaccio. Era sopravvissuta al parto, grazie al cielo, senza bisogno di soccorsi che tanto non sarebbero arrivati.
L’isola era lunga quattro chilometri e larga uno e mezzo, con un faro a segnalare la punta orientale e una grotta scura all’estremità occidentale. C’erano in tutto dodici famiglie, il reverendo e il polacco Łukasz che lavorava al faro. La nostra casa, il Rose Cottage, era incastonata nel versante di una collina, in un angolo in cui il vento la avvolgeva nel suo pugno. Tad diceva sempre che l’esercito avrebbe dovuto costruire carri armati con le nostre finestre, visto come resistevano alle intemperie. Qua e là i vetri erano scheggiati e deformati, ma ancora saldi ai telai. Di notte, nella camera da letto, attraverso una crepa si potevano sentire le capre dei vicini che richiamavano i loro piccoli e a volte si riusciva persino a scorgere una candela brillare nella loro casa come una moneta in equilibrio sulla cima della collina.
Tad era solito rivolgersi a me con il nome del cane. Il giorno della balena mi passò accanto in cortile, chiamando l’animale. Io, anziché cercare di togliere la polvere dal tappetino davanti al camino, me ne stavo lì a guardarla formare uno strato argenteo sui miei vestiti mentre scacciavo i moscerini dagli occhi.
«Esco in barca, Elis», esclamò Tad.
«Manod», ribattei io. «Non Elis. Elis è il nome del cane.»
«Lo so, lo so.»
Allontanandosi con un cenno, si avviò lungo il sentiero per il mare, con gli stivali di gomma che emettevano una sorta di risucchio a ogni passo.
«È quello che ho detto», lo sentii aggiungere. «Manod. Ho detto così.»
Dall’altra parte del cortile, Tad essiccava sgombri appendendoli a una corda. Adorava così tanto il cane da riservargli un’intera porzione di pesce essiccato. Mio padre parlava a malapena con me e mia sorella, ma di notte lo sentivo borbottare e intrattenere lunghe conversazioni con Elis, che fuori correva in cerchio annusando i licheni tra le lastre di pietra senza mai fermarsi o alzare lo sguardo verso di me. Quando gli tagliai un pesce, quell’ingrato raggiunse di corsa il biancospino, sollevando una piccola nuvola di terra e foglie secche.
Mi sfregai una macchia sul vestito. Era un vecchio abito di mia madre di flanella scura, con una serie di fili che pendevano dagli orli. Mamma si cuciva i vestiti da sola, mi insegnava anche come fare; ne confezionava di pratici con tasche ampie e tanto spazio per muoversi. Quanto a me, mi piaceva copiare i modelli delle riviste che le donne lasciavano nella cappella. Capi di tendenza sulla terraferma. Da quelle pagine mi rendevo conto che la maggior parte degli isolani aveva dieci anni di ritardo sulle mode rispetto al resto del mondo. A volte, nelle valigie trascinate a riva dalle onde trovavo vecchi indumenti da indossare o scucire per recuperare la stoffa. Mi era capitato di scovare un abito da ballo in seta rosso anemone con un trascurabile strappo sul fianco. Su un lato aveva una taschina da cui spuntava un portacipria placcato in oro a forma di conchiglia. Il piumino era ancora arancione dopo il contatto con la pelle della proprietaria.
Il nostro vicino apparve poco dopo che Tad se n’era andato, con i vestiti e i capelli gocciolanti. Lo vidi arrivare dalla collina, dove la moglie stava mungendo una delle loro capre. Dalla mia posizione riuscivo a sentire il suo odore, l’umidità della sua giacca in pelle di pecora e della camicia inzuppata che portava sotto. La moglie Leah gli corse incontro e gli prese il viso tra le mani. Mi imbarazzava guardarli, così presi a passarmi le dita tra i capelli, cogliendo alcuni frammenti del discorso di lei: «Credevamo che fosse una barca. Pensi sia un brutto segno?». Notai che le sue mani si erano irrigidite e il fiato le si era fermato in gola.
Nessuno sull’isola sapeva nuotare. Gli uomini non imparavano e di conseguenza nemmeno le donne. Il mare era pericoloso; suppongo che avessimo vissuto troppo a lungo con quella minaccia. Tra gli isolani circolava questo detto: «Giù dalla barca e dentro il mare. Dalla padella alla brace. Giù dalla barca, che Dio non ci lasci annegare».
Un tempo sull’isola c’era un re che indossava una corona d’ottone. Dopo la sua morte, per un decennio nessuno aveva voluto prenderne il posto. La maggior parte dei giovani era stata uccisa in guerra o cercava lavoro sulla terraferma. Quelli rimasti erano troppo impegnati sui pescherecci. Che volete farci? Secondo mia madre, le donne non erano state neanche interpellate.
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