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Elizabeth Strout, Resta con me

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«I cristiani ora litigano, dando prova di un sentimentalismo insopportabile. La capacità di amare sembra soltanto una possibilità. Ma chi tra noi può negare che, mentre dovremmo amarci l’un l’altro, in realtà non lo facciamo?».

È qui, nel sermone che pronuncia Tyler Caskey, pastore della fittizia cittadina di West Annett, nel Maine- protagonista del secondo romanzo di Elizabeth Strout (Resta con me, Fazi, terza edizione 2019)- è qui il nodo da sciogliere attraverso una meditazione serrata e tutta interiore che Caskey va svolgendo e che lo interroga, e ci interroga, in merito ai rapporti umani, alle meschinità e al senso di comunità che andiamo costruendo.

Un romanzo, quello della Strout, che si avvale della classica struttura di crisi, prova e ricomposizione. La stessa parabola seguita personalmente dal reverendo Caskey che, dopo la morte dell’esuberante e fatua moglie e la perdita del baricentro che lei gli assicurava, viene aggredito dal dubbio e inizia a dialogare con le Sacre Scritture, i Salmi in particolare, e con l’esperienza vissuta e descritta da Bonhoeffer, il teologo luterano e fiero oppositore del nazismo che pagò con la vita la sua militanza nella chiesa confessante e l’attività tra le fila del Abwehr: “Pensò a quello che aveva scritto Bonhoeffer dalla prigione: «L’uomo invece è sempre un tutto e non sottrae nulla al presente». Tyler riportò lo sguardo alla scrivania. Bonhoeffer aveva preso parte a un complotto per uccidere Hitler. Aveva affrontato la prigione, la morte, con fermezza; nessuno avrebbe potuto dubitare che fosse un uomo pienamente adulto. «Ma non fa parte della natura dell’uomo adulto, a differenza di quella di chi non è maturo, che il baricentro della sua vita sia lì dove egli appunto si trova?», aveva scritto Bonhoeffer dalla cella”.

È una fede che Caskey deve approfondire e maturare nel dolore- tema caro a Elizabeth Strout-, essendo che vita e fede vanno di pari passo e l’una deve confermare l’altra. Solo così il reverendo può infine concedersi la vulnerabilità, la vergogna delle lacrime, arrivando a dimostrare davanti al suo gregge la propria inermità di fronte alla sofferenza che annichilisce: ecco la prova che permette a quell’amore di rifluire come una piena nella cittadina addormentata e pettegola, la testimonianza che si fa carne, che si fa lacrime, e redime: tutti. Perché la capacità di ricevere è altrettanto importante di quella di dare e “dove c’è un essere umano, esiste sempre una speranza d’amore”, impara Tyler; come impara, leggendo Bonhoeffer, che il suo rapporto con Dio deve entrare in un nuovo stadio di evoluzione che gli richiede di essere uomo tra gli uomini, senza nessun senso di superiorità. Solo questo: la conquista più alta.

“Ripensò al fatto che Bonhoeffer era convinto che l’umanità si trovasse sulla soglia dell’età adulta. Il mondo stava diventando maggiorenne e aveva bisogno di una nuova concezione di Dio. Un Dio che non è lì a risolvere problemi, su cui non bisogna contare solo per fare ciò che l’uomo è in grado di compiere da solo. Tyler si fermò di fronte a un grosso olmo e guardò giù per la collina, verso il fiume visibile in lontananza. Se il rapporto del mondo con Dio stava cambiando, ebbene, anche il rapporto di Tyler con lui stava cambiando. Pensò alle parole dell’inno che aveva sempre amato: Difensore degli indifesi, resta con me. Sapeva che si sarebbe potuto affermare (e forse Rhonda Skillings lo avrebbe detto) che si trattava soltanto della supplica di un bambino spaventato che allungava la mano nel buio per stringere quella di papà Dio. Ma Tyler, canticchiando sommessamente la melodia, fermo sotto l’olmo, presto cala la sera; la tenebra si addensa; resta con me, o Signore, pensò che Dio esisteva nell’inno stesso, nella dolorosa e anelante consapevolezza della solitudine e della paura che prima o poi giungono nella vita. L’espressione di quella solitudine, la sua profonda autenticità costituivano la bellezza dell’inno”.

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