Mi sono tappato le orecchie quando hanno cercato di raccontarmi tutta la storia, quando mi hanno detto di Laura Putti e delle edizioni Ventanas che io già conoscevo perché un’amica libraia mi aveva mostrato alcune loro pubblicazioni.
Mi sono tappato le orecchie per non farmi condizionare però il suono è arrivato lo stesso e ho scoperto che Laura aveva pubblicato Armonìa Somers, il colombiano Gaviria, Ruben Gallo, che erano tutti stranieri, tradotti e, per questo, Laura pensa che vuole uno scrittore italiano, che sia giovane, nuovo, vuole una scoperta. A Parigi incontra lo scrittore Forlani che qualcuno, come lo vuole Laura, lo conosce, se lo inventa, perché Forlani padroneggia la scienza delle soluzioni immaginarie, come Jarry, e le dice che esiste Elvio Carrieri, che ha diciannove anni, è un poeta e suona la chitarra, non ha mai scritto prosa eppure, Forlani, è convinto di poterlo tramutare in uno scrittore con una semplice telefonata.
Un romanzo in una settimana, questa la sfida, il gioco di prestigio, questa la storia. Ogni alba un capitolo, sette giorni dopo, un esordio.
Poveri a noi.
Che avesse diciannove anni, ho pensato, non ha importanza perché si può essere buoni a vent’anni e pessimi a sessanta. Non volevo cascare nella trappola della promessa, immaginando qualcosa nel tempo, profetizzando una parabola creativa che non si può conoscere, come quando vedi giocare Kvaratskhelia e poi dici: è ancora ragazzo e poi lo catapulti dieci anni avanti, immaginando che sarà ancora più bravo, con una maglia diversa, perdendoti così la gioia del momento e tutto quello che riesce a dare adesso, che ha ventitré anni e si muove imperfetto e caracollante come un uccellino con il petto coperto da un lembo di cielo.
In letteratura, del resto, non esiste l’inizio e non esiste la fine, esiste l’opera.
Importa poco che sia la prima o l’ultima, che arrivi a diciannove anni come per Radiguet, o a ottantasette, come successe a Dolores Prato.
Nel mentre, quando si combatte con la pagina, mentre si lotta per affrancare la propria appartenenza alla scrittura, mentre infuriano le azioni e i dubbi, ogni opera è sola. Per questo, provando a dimenticare quanto mi era stato detto su questo libro ancor prima di aprirlo, ho sfogliato le pagine di Poveri a noi come se le avessi raccolte da terra e ho scoperto la vita di un uomo che si concede il più infantile e, per questo, il più stretto dei vincoli: l’amicizia.
Nel suo libro dedicato ai bambini che gli adulti sono stati, Saint-Exupery scrive che è triste dimenticare un amico e molto faticoso ricordarlo quando lo si è perso. Libero, protagonista di questa storia ha un amico di nome Plinio che non è solo un amico, non è solo un uomo. Plinio è il peso che si trascina il ragazzo che non vuole crescere e che si prepara a morire come Patroclo, pur di non perdere la giovinezza.
Sebbene sia una storia più complessa, dove Carrieri ci racconta l’incapacità di amare del suo protagonista, il conflittuale rapporto con il padre e il tentativo frustrato di costruirsi riferimenti nuovi, nel profondo, a me sembra, che Poveri a noi racconti il tentativo di rimanere aggrappati ad una fase della vita dove era possibile innescare liti furibonde su questioni di filologia, di musica o di cinema, quando i serpenti erano capaci di ingoiare elefanti interi, senza sembrare cappelli.
Il racconto procede con uno stile leggero e ironico, fino al finale che potremmo definire a sorpresa.
Nello stile di Carrieri c’è qualcosa di scanzonato e, al tempo stesso, corrosivo, riconoscibile, che va da Bellow, da Mordecai Richler, fino alle commedie di Carlo Verdone.
I dialoghi sono molto serrati, cinematografici e, per questo, talvolta, si sente l’assenza di quei riferimenti che potremmo definire “letterari” utili a capire chi stia parlando. Se poi, Poveri a noi, non sia perfettamente originale importa poco, l’originalità in letteratura è come un quadrifoglio che il lettore serio nemmeno si aspetta di trovare nell’immenso prato delle ultime uscite.
Il finale può sembrare inaspettato, ma rimane in linea con quanto detto rispettando una tenuta narrativa solida.
Adesso che ho finito e non posso più esserne condizionato, mi ripeto tutta la storia di come Poveri a noi sia nato e sento germogliare una ninfea di consolazione, quasi una malinconia, per come sempre dovrebbero nascere i libri: all’alba, con urgenza e con un amico che vive lontano, che si ricorda che esisti e, con un gioco di prestigio, ti costringe a tirare fuori l’irrisolto.
Pierangelo Consoli
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Mentre scrivevo quelle stilettate mi sentivo il pa-ladino delle lettere, il basileus del nuovo umanesi-mo, il demiurgo di una realtà che andava plasmata e criticata e ordinata con l’aiuto delle mie parole. Ero ridicolo. E solo. Mi gongolavo e mi gongola- vo nella mia spietata recensione della quale andavo veramente fiero. L’unica cosa importante, alla fine, erano le parole, il taglio, la scrittura. Credevo che un prodotto ben scritto non avrebbe dovuto preoccuparsi di formattazioni, spazi e interlinee. E per l’appunto mi sbagliavo, perché ero presuntuoso e senza esperienza. L’epifania che mi fece rendere conto che non sarei diventato uno scrittore e che soprattutto non sarei stato l’orgoglio di mio padre si verificò in quegli attimi. Avevo quindici anni, lui sarebbe partito a breve per andare a stringere la mano a Protasevich, ma mi stava aiutando a formattare l’articolo per renderlo presentabile.
Si voltò verso di me, il collo coperto di vene prossime a un’esplosione, si portò la mano alla barba, appoggiò l’altra sul tavolo della scrivania e parlò.
«Usa il Garamond».
«Cosa?».
«Il Garamond».
«Scusa, e che è il Garamond?».
«È un font. È quello giusto. Se non lo mandi con il Garamond puoi anche aver scritto la cosa migliore di questo mondo ma stai certo che nessuno te l’accetta».
«In che senso?».
«Funziona così. Ci sono delle regole che vanno seguite. Non puoi fare tutto di testa tua, sind ad attànt, senti a tuo padre».
«Ho capito, ma la mia domanda è: perché mai un editore dovrebbe stare a pensare al Garamond?».
«Ma veramente fai? Perché è così che funziona il mondo».
«Poi, scusa, tu che ne sai dell’editoria e delle re- gole dell’editoria?».
«So che al mondo ci sono cose che vanno fatte in un certo modo. Quando aiutavo tua madre a formattare la tesi mi dissero la stessa cosa: interlinea 1,5 e Garamond».
«Scusa, adesso che è l’interlinea?».
«Vabbé Libero però svegliati un pochettino pure tu».
«Ma come posso saperlo? E che me ne dovrebbe mai fregare? Io scrivo, punto. È questo che conta».
«Oh, arreit. Non è questo che conta, o almeno, non è solo questo che conta. Lasciamo stare».
«Ma chi ha detto lasciamo stare».
«Libero, avast. Non è cosa. Puoi fare di testa tua».
«Meh dai dì, dove sta il Garamond?».
Mio padre uscì dalla stanza e chiuse la porta con gentilezza. Iniziai a sentire freddo. Guardavo gli infissi, il termosifone, le mensole con le foto di quando ero piccolo. Pensavo che tutto, dalle finestre alle fondamenta, mi sarebbe potuto crollare ad- dosso. In quel momento, esattamente su quella se- dia in camera da letto, nell’appartamento in cui mia madre vi o che non avrei fatto lo
scrittore.
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Elvio Carrieri, Poveri a noi, Ventanas 2024, Pp. 214, euro 16