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Emanuela Cocco. Tu che eri ogni ragazza

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Ho lasciato passare qualche giorno dal termine del romanzo, certe frasi restavano impresse a forza, ritornavano scomode nei ritagli di tempo, nelle pause, nei momenti di silenzio e più di una volta mi sono ritrovato a concludere un pensiero con quella stessa richiesta “votate pietà”, con cui l’uomo e la donna senza nome firmano le loro storie nere. 

Nero, appunto, il colore che permea queste pagine. Perché nero è il dolore che muove dopo la perdita, nere sono le cose che aspettano nascoste dietro le spalle, nero è lo sporco ammassato negli interstizi di quella stazione, Roma Termini, centro nevralgico di tutta la narrazione. 

Nero, tutto nero. Ovunque. Neri i pensieri, neri i lividi sulla pelle, nero l’inchiostro che trasuda da una prosa che non concede respiro. Raccontare la voragine di una perdita senza scadere nella retorica, nel patetismo o nella commiserazione. In questo la Cocco ci sa fare. 

La prosa che tratteggia questo trittico di vicende è un corridoio di schegge, una macchina affilata e marziale che ci sbatte dentro scenari claustrofobici, in cui violenza e pietà restano ai margini opposti di un incudine massiccio e spigoloso. Una Roma Termini in cui gravitano le vite di pendolari e studenti che ogni giorno macinano chilometri travolti dall’esigenza dell’esterno. Un esterno fatto di dolore, povertà e violenza, un esterno che nessuno si prende il tempo per “vedere” davvero, perché tutto dev’essere forma, immagine, velocità e pulsione. Queste sono le priorità dell’estetica contemporanea ed è in questo sballo di input, streaming sentimentali e brand idolatrati a divinità che si muove la sagoma ingombrante di Maria Concetta detta Jungla, prima anima di questo trittico disgraziato. Una ragazza crisalide che ha sacrificato ogni stimolo di umanità in favore di un’esposizione alle immagini, al bombardamento visivo, agli infinite-scroll di status e sentimenti altrui. Un’adolescenza borderline esposta nelle vetrine di un centro commerciale dove solo la superficialità del momento acquista valore, dove ogni forma di debolezza è bandita, nascosta, ripudiata come un male di cui vergognarsi. 

E così Jungla si muove, lenta ma costante, con le sue Nike sgargianti ai piedi e il cellulare sempre in mano, in un silenzioso sgomitare che grida accettazione, qualcosa che le garantisca di affermarsi, riconoscersi. Tutto l’opposto di quel Gesù dei poveri, padre di una ragazza uccisa dopo uno stupro, incarnazione grondante di quel senso di colpa che divora le viscere: l’incapacità di non esser riusciti a proteggere la persona che amava di più. Nessuno gli ha fornito una spiegazione, nessuno gli ha spiegato il modo per combattere il senso di colpa. La moglie si è fatta piccola, tutta intirizzita in un dolore apatico che la spegne giorno dopo giorno, un dolore che padre-Gesù ci sbatte sulla pagina attraverso un corsivo grondante disperazione. Non c’è cura a quel male, non c’è rimedio allo strazio. L’unica (apparente) soluzione è una nuova forma di elemosina/espiazione della colpa. L’equilibrio della materia per compensare gli alti e bassi di un animo che non avrà più redenzione e la cui unica forma di sollievo sembra dettata da quella pietà a cui l’uomo-padre-Gesù-mendicate si dedica ogni giorno all’esterno del ristorante Amore. 

La trama si sfalda, non c’è più struttura, la qualità della penna regge una narrazione che procede per scenari.

Resta il dolore, un incedere strascicato tra le vicende, la solitudine e quell’ultimo stimolo di rivolta rappresentato dalla presenza di Duca, un’assistente sociale che cerca di mettersi in contatto con Jungla, di prenderla e portarla via da quel mondo marcio di cui si sta cibando ma le cui motivazioni vengono presto abbattute da una macchina sociale che inchioda ogni forma di assistenzialismo in un precariato da 6 euro all’ora, contratti inesistenti e uno stato che non vuole prendersi la responsabilità degli ultimi. 

Ultimi che ritornano, ciclicamente, con presenze costanti, a popolare i marciapiedi di una città dai colori smorti, dove l’asfalto e lo smog si cibano del cielo, una Roma lontana dalle cartoline edulcorate e per questo ancora più credibile. 

Quella che ci sbatte in faccia la penna della Cocco è una cattedrale spietata e frenetica che ingurgita anime, le mette in competizione portandole allo stremo per poi rigurgitarle in quegli stessi angoli da cui le ha raccattate.

E così le persone vagano, senza una meta apparente, bersagli inconsapevoli di un gioco macabro generato da un dialogo nascosto. Quell’uomo e quella donna senza nome che ritornano e si alternano in quel macabro scambio tra un capitolo e l’altro, ritagliandosi spazi scomodi nelle vicende di Jungla, Duca e Gesù, generando immaginari frammentati (reali?), spezzati da quell’unico requiem finale che implora alla pietà. 

Il romanzo termina, ma le immagini restano vivide, il dolore torna a privarsi del suo nome, ma il lettore consapevole ora sa, che quella cosa attaccata alle sue spalle, si porta addosso  il peso di un male condiviso.

Stefano Bonazzi

Emanuela Cocco

Tu che eri ogni ragazza

Wojtek Edizioni

 

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