“Che spreco passare tanto tempo con una persona, solo per scoprire che è un’estranea.” caldeggiava Joel Barish in una scena di Eternal Sunshine of the Spotless Mind, film feticcio e forse pure un poco veggente sui tempi che verranno. “Che spreco”, rifletteva Jim Carrey e nel mentre il suo sorriso da Joker sornione si scioglieva in un alito invisibile che raffreddava la fotografia e noi spettatori assieme, veniva naturale a quel punto, stringersi nelle spalle o stringere, più forte, la persona che si aveva accanto.
È un brivido simile, freddo e amaramente nostalgico, quello che si prova in certi passaggi dell’esordio di questo promettente autore la cui formazione teatrale riverbera in ogni paragrafo. Una prima volta in cui ogni candore s’è smarrito al cospetto di una fotografia destinata a sbiadire o la frattura di una promessa taciuta che traccia un solco indelebile, è il modo in cui similmente potrebbe sentirsi un ragazzino che spia dal buco della serratura per scoprire che Babbo Natale è solo un padre con un pigiama rosso e i doni dentro la sporta: un senso di perdita e impotenza al cospetto di una constatazione più grande di noi. In questo, Aldrovandi, al pari di un Caronte contemporaneo, nel suo “grande niente” ci traghetta all’interno della vita e dell’appartamento di una ragazza senza nome la cui perdita inaspettata e imprevedibile del compagno, smuove domande intime, dal portato universale.
«…ti sposi, fai dei figli, invecchi, sei sempre più stanco, stressato e a un certo punto ti accorgi che siete solo due coinquilini che devono gestire una casa, dei bambini e una serie di impellenze quotidiane che non vi lasciano tempo per niente. Guardi l’altra persona, ti accorgi che l’amore è svanito e non riesci neanche più a ricordarti com’era, quando c’era.»
“La morte non è l’opposto della vita, ma parte di essa”, inneggia il Murakami più ispirato e da questo gancio inconsapevolmente pare attingere anche il testo qui presente perché la morte del compagno amato, anch’esso privo di nome (lui, lei, noi… che differenza fa? In questo trance de vie siamo tutti protagonisti e spettatori) non è qui sinonimo di un distacco, bensì di un modo per costui di restare accanto, seppur nell’inconsistenza spettrale di un inerme osservatore, alla persona cara.
Ma che succede se costei, dopo il doveroso cilicio del lutto cerca, nell’angoscia dei giorni, di rifarsi un’esistenza? E come ci si sente a scoprire non essere più indispensabili? A sentirsi dissolvere piano, dietro il tendone di un sipario che è calato solo per noi? Quale senso di impotenza si prova a prendere atto che certi legami, forse, non sono altro che convenzioni frangibili e che tutti, prima o poi, siamo destinati a essere dimenticati?
Si parte da queste domande e non è di certo un caso che l’autore, per portarci all’interno della vita di questa coppia abbia scelto di narrare il tutto attraverso la seconda persona. Il protagonista dunque si rivolge alla sua compagna ma, in modo implicito, le questioni qui esposte smuovono un terreno su cui tutti, prima o poi, siamo chiamati a metter piede.
«Poi ti ho detto che la mia vita, alla fine, avrei potuto descrivertela cosí, come una serie di tentativi di sconfiggere la morte: fare, andare, godere, leggere, studiare, provare a credere, cercare di sapere, indagare, scrivere, creare, tutto nella speranza di trovare un appiglio a cui aggrapparmi, per non sprofondare in quel baratro che mi sono sempre sentito sotto i piedi. Ma erano tentativi incompleti. E anche l’amore verso di te lo era. Un’ultima illusione, che prima dell’incidente riusciva ancora misteriosamente a illudermi, a farmi dormire sereno, mentre adesso non funziona più.»
È un procedere per piccole cose questo “niente” in cui ci si ritrova d’improvviso coinvolti: le briciole lasciate su una tovaglia, il disegno sopra una tazza, una foto appesa al muro, la citazione (vagamente profetica) di un film che non si è mai riusciti a guardare assieme.
Aldrovandi, come uno scrupoloso manovale, poggia mattoni che hanno dimensioni di giocattolo ma la resistenza del cemento armato e su queste fondamenta erige una storia semplice il cui tono, leggero solo in apparenza, non mira alla lacrima facile, bensì a una pacata riflessione che abbraccia (soprattutto nella seconda parte) sfumature filo-antropologiche in cui emerge prepotente la formazione di un artista abituato a destreggiarsi con la musicalità del dialogo.
«Immagini di avermi lì davanti e mi chiedi dove sei adesso, amore? Ma io non sono da nessuna parte e questo è un vero peccato. Sarebbe bello se una volta morti si potesse uscire da sé stessi per sedersi qualche minuto nel cinema deserto in cui è stata proiettata la propria vita. Almeno per guardare i titoli di coda e farsi le classiche domande che ci si fa alla fine dei film.»
In chiusura, viene da accostarsi all’amara speranza caldeggiata da Arthur Miller “di poter finire ogni vita con i giusti rimorsi”, quali che siano, perché la pièce teatrale messa in scena da Emanuele Aldrovandi è uno spettacolo sui chiaroscuri di una coppia in cui difficile, se non impossibile, è il ritrovarsi e riconoscersi.
In questo deflagra la potenza di un testo che trascina all’interno di un itinerario esistenziale il cui nerbo letterario non risiede nell’affannarsi, quasi bambinesco, per trovar risposte a domande troppo grandi, semmai nel dispiegarsi di una formula semplice per andare avanti, sopportare e in qualche modo sopravvivere, un giorno per volta: attori, spettatori, esseri di carne o ricordi, che differenza fa?
La ricerca di un quieto vivere è un diritto che non necessita distinzioni.
Stefano Bonazzi
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Il nostro grande niente
Emanuele Aldrovandi
Einaudi
17,00 euro — 200 pagine