La prosa di Carrère torna ad appassionare il pubblico italiano con l’ultima opera edita da Adelphi nel maggio 2021. Si tratta di Yoga, tradotto da Lorenza di Lella e Francesca Scala. Un’ opera che prende come spunto di riflessione la pratica dello Yoga, che significa unione col divino, a cui non sempre riesciamo ad arrivare per via di ego troppo ingombrante, un io nevrotico che si auto-contempla nel suo delirio di onnipotenza, come se i pensieri si potessero dominare. Il paradosso della filosofia occidentale, la crux philosophorum, è da sempre il dualismo Essere/Divenire, iniziato con la contrapposizione tra Parmenide ed Eraclito, in realtà più vicini di quanto si argomenti di solito. Il dualismo continua a tormentare l’Occidente, ritorna nella res cogitans e res extensa di Cartesio, in qualunque filosofo che abbia messo al centro dell’Universo il suo Io abnorme, come se il mondo non fosse una sua proiezione.
Se non sciogliamo l’Io dalle catene delle proiezioni non torneremo, mai a quello stato di purezza incontaminato, a quell’ Eden perduto dal quale fummo “gettati” nel mondo, per usare un’espressione heideggeriana. Tutto ha principio dentro di noi che, pur provenendo dal Nulla, abbiamo cominciato a pensare di dominare il cosmo e con questo l’altro uomo, come se l’altro non fosse una proiezione di noi. Da questo dilemma che attraversa la relazione anima/corpo non usciremo mai se non guardando all’Oriente che spoglia l’Io dei pensieri, nella consapevolezza di quanto questi siano disorientanti e talora devastanti. Infatti, devastato dai suoi pensieri e dal desiderio di dar loro una forma è Carrère che, praticando la meditazione, si imbatte nei suoi fantasmi interiori e decide di scrivere Yoga per raccontarsi in flusso di coscienza/incoscienza a partire da un seminario di meditazione Vipassana nel 2015, che non era consentito abbandonare e che lui abbandona dopo aver appreso la morte di un amico nell’attentato a Charlie Hebdo.
Si dà al lettore nell’aggrovigliarsi dei suoi pensieri come guardandosi allo specchio e confidando le sue tribolazioni con un certo sguardo compiaciuto e al contempo impotente di fronte alla constatazione di come la filosofia orientale non lo soccorra. Il suo Io occupa il palcoscenico .Lla storia lo cattura mentre egli cerca di catturarne la trama. Ogni pensiero, ogni macchinazione mentale, ogni sussulto dell’anima viene registrato e ridato in una prosa che incanta, fluida e densa, in una continua auto-confessione che lo dilania e lo incatena come le Sirene di Ulisse. Se facesse sua la certezza che dovremmo avere sull’impermanenza di tutte le cose, sull’illusorietà dei nostri pensieri,non si scatenerebbe quel putiferio che è la sua dimensione esistenziale che poi lo conduce all’uso dei farmaci per curare quello che è diagnosticato come “disturbo bipolare di tipo B” con connessa depressione e strutturale melanconia.
Io credo che dominare i propri fantasmi sia un’impresa titanica, al di sopra delle possibilità umane, che condurrebbe ad una diagnosi di disturbo psichiatrico chiunque, anche il più avveduto uomo di questo pianeta. Eppure, l’Oriente della meditazione yoga lo intuisce bene: bisogna ridurre la grande macchina dell’Io, annullare una parte per dar vita ad un’altra, uscire dal circuito dei pensieri, guardarsi dall’esterno e ridere della propria nullità constatando che non c’è nessun dualismo, nessun uomo che venga aggredito se non dai suoi stessi pensieri.
Carrère è vittima e carnefice di se stesso; è caduto nel tranello e non riesce più a sbrogliare la matassa: lo confida al lettore come al suo più intimo amico, con un tono amichevole, quasi fraterno. Questi, che capisce l’illusorietà del tutto, rimane incantato e disturbato al contempo, rapito dalla sua prosa che senza sosta scorre come un filmato di posture narcisistiche nel tentativo di ritornare alla fonte da cui tutto è scaturito quasi travolto da questo inarrestabile fiume vorticoso in cui non c’è fine e non c’è inizio. Non c’è respiro perché si è troppo presi dalla necessita di dire , caduto come è l’autore vittima del suo stesso personaggio. Virtuosismo stilistico e franchezza anche masochistica nell’analisi di sé a partire dalla sua prima relazione con mondo fino all’ultimo innamoramento caratterizzano l’opera per la durata di 312 pagine che mi hanno incatenata, annullata e fatta risorgere, nella consapevolezza che il libro, parlando di sé, parla del mondo, me compresa, ma che è anche necessario prendere le distanze emotive per non lasciarsi travolgere dal fiume in piena di parole che promanano infinita conoscenza e capacità di analisi. Non approda tuttavia alla convinzione della provvisorietà delle certezze e della fallibilità umana nel costruire se stesso e il mondo. Di fatto abbiamo un uomo che affronta ben 14 sedute di’elettroshock per guarire e tornare a guardare il mondo come un mistico d’Oriente che però pratica il distacco dalle passioni e l’autarchia del sapiente nella consapevolezza che c’è un feeling tra uomo e cosmo interrotto dai nostri stessi pensieri. Diceva H. Hesse che siamo fiume, che si getta nell’oceano diventandolo. Questa operazione richiede però la liberazione dall’Io che crocifigge Carrère e che condanna l’uomo occidentale a pretendere prestazioni sempre più alte per conseguire benessere economico, ma non ragionevolezza psichica, che consiste nell’essere la versione migliore di se stessi, mettendo a frutto il proprio potenziale umano. Di questo Carrère ne ha da vendere, perché pochi narratori sono così in grado di raccontarsi, mettendosi a nudo nelle proprie fragilità e al contempo punti di forza; il lettore non può che aderire empaticamente come di fronte ad un amico in difficoltà e vorrebbe tirarlo fuori attraverso un ‘illuminazione, mostrandogli la luce fuori dal buio della caverna in cui si trova, additandogli il cielo a cui rivolgere lo sguardo, piuttosto che i piedi che restano nella melma; ma sa anche che finirebbe il miraggio del suo io onnipotente che certo cattura.
Giovanna Albi