Non ci sono parole, per questo libro. Nessuna sarebbe abbastanza profonda, o completa. Forse puoi iniziarlo con una certa difficoltà, ma poi ti incastrata. Rapisce, trascina. E selvaggiamente ti frantuma, con parole così pulsanti di vero da bucarti qualcosa dentro.
Emmanuel Exitu, scrittore e drammaturgo bolognese trapiantato a Roma, ci racconta i primi cinquant’anni di vita di Cicely Mary Strode Saunders. Siamo a Londra, in un periodo che va dalla Seconda guerra mondiale fino al 1968. Mrs Gatlin, direttrice delle infermiere della prestigiosa Nightingale School, decide di portare le sue novizie direttamente sul campo, per curare i feriti. Una di loro, però, sembra un po’ strana: molto più alta, più vecchia, burbera e solitaria. La più brava. Il suo nome é Cicely. Emmanuel riesce a immedesimarsi nel suo personaggio diventando un tutt’uno con la sua anima, e la fusione, dolorosa e miracolosa insieme, risulta in un racconto che si legge come si vive la vita stessa: fino in fondo, avidamente. Ci sono dei passi che rimangono impressi a fuoco, passi penetranti, purificatori e immortali. Galassie, infiniti dentro la punta delle dita di una ragazza morente, che scopre cosa significa sperare premendo il dono di una palla di neve. É una storia che parla di tutto quello che significa essere un operatore sanitario, che fa risentire al lettore l’odore, la sofferenza, la speranza e il duro lavoro nelle corsie d’ospedale. Che fa capire l’importanza di ogni segmento della vita di un malato, anche quando la medicina dichiara scientificamente che non c’é più nulla da fare. Di come si può amare anche se si sa che manca poco a morire, di come si può vivere fino all’ultimo respiro con un senso di dignità rinnovata. Di come ciascuno di noi sia un fiocco di neve unico, che cade a terra entrando a far parte del tutto, ma che non svanisce veramente mai. È un romanzo che qualsiasi studente e futuro professionista sanitario dovrebbe leggere, perché ci narra di che cosa significa fare veramente medicina. Di come ognuno sia un tassello fondamentale, di che vuol dire davvero prendersi cura. Curare non è solo dare delle medicine e seguire dei rigidi protocolli, imponendo limiti disumani e disumanizzanti. Curare é amare, esserci fino all’ultima goccia della mente e del cuore. Curare é una vocazione, non per forza cattolica. É una funzione primaria, come respirare, bere, fare all’amore e mangiare. Un bisogno che definisce veramente chi siamo. Sono gli altri a permetterci di scoprirci attraverso il dono, sono gli altri il vero motivo per cui viviamo. Morire essendo curati é l’unica morte degna di questo nome. Morire continuando , se non si può mangiare, almeno a sentire il profumo di una crostata. Morire riuscendo a godere la vicinanza dei volti cari, riuscendo a soddisfare qualche piccola follia, ma soprattutto partecipando. Partecipando alla vita. Emmanuel si reincarna nella dottoressa Saunders restituendoci, attraverso la sua vita e le parole che ha pensato di metterle in bocca, tutto l’insegnamento, in continuo divenire, su che cosa significa amare. E trovare ciascuno la propria strada, rispondendo alle nostre piccole e grandi chiamate.
Questo romanzo permette anche al lettore di conoscere più da vicino la medicina palliativa, un’entità che, proprio negli anni in cui lavorò la Dottoressa Sauders, veniva relegata al parcheggio dei malati terminali in hospice gestiti da Ordini religiosi e da volontari, con scarsa o nessuna attenzione medica degna di questo nome. Ma che é importantissima, perché é la cura della fine, l’attenzione agli incurabili e alle loro necessità, a costituire il lato più umano della medicina. Che sta nel prendersi cura di tutto il dolore, senza stabilire quali tra i dolori siano più importanti e meritevoli di attenzione, perché appartengono tutti alla stessa verità.
Com-patire e parlare, vivere con i pazienti e per i pazienti, oltre a comandare, organizzare e somministrare cure. Lasciare che il cuore si spezzi. Sapere che la perfezione non esiste, che la concretizzazione di un’idea comporterà sempre la lacerazione di una ferita. E che il meglio può essere nemico del bene, se ci porta a maltrattare le persone che stanno cercando di aiutarci, e se ci nasconde la realtà del fatto che, nella vita, tutto è incompleto. Nulla si impara o si può capire fino in fondo. La vita scorre, e si regge soltanto sulla solidità della speranza, e della vocazione rinnovata. Perché la speranza é una creatura scomoda e fastidiosa, goffa e brusca, ma è anche il calore di chi é veramente affidabile. E i pazienti lo sentono.
Queto è un libro che custodisce pagine che andrebbero lacerate per le sottolineature, imparate a memoria e lette ad alta voce, come se diffondessimo un vangelo. I valori cattolici, di cui la Saunders era intrisa e in cui credeva fermamente, essendosi convertita in età adulta e quindi avendo abbracciato la religione per scelta, non ci vengono propinati in maniera didascalica e fastidiosa, ma sono vibranti, esempio concreto. Nonostante questo, lo scrittore non si pone al di sopra della storia in un’ottica religiosa, e affida una considerazione finale sull’unicità dell’esperienza intima del credere a una giovane hippie morente.
Da questa storia il lettore può trarre quali siano i valori che dovrebbero guidare un buon medico: una curiosità instancabile; una forza di volontà che ponga le azioni al servizio di idee che mettano in primo piano i pazienti, ma non solo per soddisfare le loro necessità di guarigione del corpo, ma anche il recupero della dignità e il diritto a una cura che sia davvero umana. Queste carenze da parte della medicina, che spesso si perde nel tecnicismo scientifico, e somministra farmaci relegando, subito dopo, i pazienti a una lunga solitudine, senza scambiare poco più che lo stretto necessario di parole, in ambienti ai limiti del confortevole e quanto più lontani possibile dal calore di una casa, sono ancora oggi ben presenti, tutt’altro che risolte. Ecco perché questo libro si pone come latore di principi universali, ma anche di problemi concreti sulle cui risoluzioni bisognerebbe riflettere e agire. Ma questa è una storia che ci dipinge anche molto bene com’è un pessimo medico. Un pessimo medico è colui che acquisisce titoli solo per esercitare l’abuso di potere. Un pessimo medico è un medico che se ne frega, che si presenta solo quando è strettamente necessario, sbrigando qualche pratica e aderendo con rigidità ottusa ai protocolli, per poi sparire senza interessarsi veramente, senza rimanere davvero con i pazienti. Spesso, senza manco parlarci.
Oltre ad aprire una casa di cura laica e basata su una sottoscrizione pubblica, con lo scopo di fornire ai malati terminali un posto caldo e accogliente in cui recuperare l’anima, e in cui diventare capaci di cominciare il viaggio dopo la morte stringendo in mano un biglietto fatto di coscienza, di dignità, di sofferenza, ma anche di amore e di un senso di comunione, la dottoressa Cicely M.S. Saunders, grazie a una borsa di studio biennale, sfruttò la sua insaziabile curiosità, e acuta capacità d’osservazione, per mettere a punto una nuova metodologia di somministrazione delle cure per il dolore -basata su una modulazione della terapia, da parte delle infermiere, entro un range adattato ad hoc alla sofferenza del singolo paziente, e consistente nell’erogare basse dosi di analgesici in maniera ravvicinata nel tempo-, liberando centinaia di malati dall’inferno disumano che impedisce di vivere gli ultimi istanti con la meritata serenità.
Infine, va delle che il romanzo di Emmanuel Exitu è un romanzo sinceramente femminista, ma non nel modo sgradevolmente ingessato e neo-nazista del politicamente corretto: è che, semplicemente, Cicely fu una donna veramente moderna. Una donna che seppe scontentare i genitori e le aspettative della società alto borghese dell’epoca, mollando l’Università di Oxford e iscrivendosi alla Scuola da infermiere all’età di ventisei anni. Per poi iscriversi all’Università di Medicina, dopo un periodo svolto impeccabilmente come volontaria in hospice e come assistente sociale, all’età di trentatrè anni. Una donna che non si sposò, né ebbe figli, ma che amò intensamente e con tutta sé stessa. Una donna che non si fece scrupoli a comandare e organizzare qualsiasi fosse il suo posto di lavoro, concependo e mettendo in pratica migliorie e procedure con un perfezionismo che la rese spesso, sebbene di bravura indiscussa, antipatica e maldigerita. Una donna capace di rispondere alle autorità mai con dei brividi di paura, ma con le idee brillanti e con i fatti. Di coltivare un sogno nato su un letto d’ospedale e di realizzarlo dopo il duro lavoro di vent’anni.
Un libro del genere vale più di mille manifesti, perché a parte qualsiasi genere di pensiero o di ideologia che vi si potrebbero innestare, è prima di tutto un libro sul che cosa significa fare del bene, e farlo permettendosi di essere, e di coltivare sé stessi fino in fondo. Perché Cicely, e questo è importante dirlo, permise, oltre che a sé stessa, anche ai pazienti, di essere loro stessi. Senza imporre loro nulla, ma adattandosi alle loro necessità e consentendo loro di raggiungere, prima dell’ultimo respiro, quella pace profonda che si sperimenta quando si è finalmente in armonia con il proprio sé autentico, con il fanciullo divino che alberga in ciascuno di noi.
Giulia Casini