Parte una musica dolce, poi le prime immagini in bianco e nero. Un ring immerso in una nebbia densa e sporca.
Il pugile è solo, indossa l’accappatoio e i guantoni. Saltella, tira pugni, scrolla le spalle e sembra la danza che i bruchi immagino facciano prima di diventare farfalle, avere il momento splendente e poi soccombere.
Di tanto in tanto la nebbia fitta viene squarciata dai flash dei fotografi. Sembrano stelle che esplodono in un sistema solare alla fine delle sue ere.
Ho rivisto questa scena decine di volte e sempre con gli occhi spalancati. Toro scatenato. Se si volesse spiegare a un ragazzo il significato di una vita in lettere, basterebbero quei due minuti e ventiquattro secondi e magari convincerlo a lasciar perdere.
Tutto ciò che significa essere uno scrittore è lì: la solitudine, il combattimento. Perché quello che la maggior parte delle persone ignora quando sogna un certo tipo di celebrità, è tutta la valanga di solitudine e angoscia che uno scrittore deve essere così generoso da abbracciare perché esisteranno solo due giorni sul calendario: quelli in cui scrive bene e quelli in cui scrive male o nient’affatto. Niente Natale, Pasqua o Capodanno. Solo giorni buoni e giorni cattivi. Anche per quelli intorno, sarà difficile da sopportare.
C’è una scena in L’ultima moglie di J. D. Salinger di Enrico Deaglio, edito da Marsilio in cui il professor John Taliabue – membro onorario dei Dead Caulfields – e la studentessa Olga Simoneova, che poi scopriremo essere una spia russa al servizio di Putin, sono a casa dell’autore del Catcher in the Rye.
Taliabue deve aiutare la moglie di Salinger a sbrigare alcune faccende e, per caso, entra nello studio del grande scrittore. La stanza è spoglia, spartana, con pochi libri, un dizionario e due dischi che, nella storia di Deaglio, hanno una natura rivelatrice. Deaglio è bravo a raccontarci Salinger attraverso piccoli espedienti, come quando Taliabue e il padre dei Glass vanno dal barbiere aspettando che cominci il funerale di un vecchio commilitone.
E poi c’è un’altra stanza, adibita allo stesso utilizzo e lontana non tanti chilometri ma molti anni. Ce la descrive David Lipsky in un libro intitolato Come diventare se stessi. David Foster Wallace si racconta. In un momento di distrazione Lipsky s’intrufola nello studio di Wallace e trova una stanza altrettanto essenziale. Salinger aveva una macchina da scrivere, Wallace un computer con i floppy disc. Pochi libri anche qui e il vocabolario.
Al di là di ciò che si vede, queste due stanze hanno in comune qualcosa di terribile e che solo si percepisce: la desolazione. Sono i mondi interiori di due uomini molto alti, molto dotati e fragili come foglie.
Se si guarda bene, tra penombra e lampi di luce, si scorge LaMotta che danza, che finta, che colpisce il vento che sale dal baratro fino a non sentire più le braccia.
Deaglio ci racconta la guerra di Salinger, i suoi fantasmi tutti in fila; Wallace, invece, aveva la depressione cronica. Per uno significò il suicidio, per l’altro la necessità di doversi cancellare.
Per entrambi il successo travolgente è stato sempre altrove, tenuto a distanza di sicurezza per non impazzire.
I libri ci portano sempre da qualche parte, e quasi mai era dove pensavamo di andare. Quando ho cominciato a leggere la storia narrata da Enrico Deaglio, pensavo a una lettura piacevole e spensierata, un giochino intellettuale al limite tra l’hard boiled e la rievocazione di un personaggio amato. Invece mi sono ritrovato dentro di me, dentro altre storie, come se Deaglio, indossando i panni dell’Holden adolescente sincero e imbranato, stesse parlando d’altro, fingesse di parlare d’altro, come tutte le volte che candidi si parlò d’amore.
Pierangelo Consoli.
Recensione al libro L’ultima moglie di J. D. Salinger di Enrico Deaglio, Marsilio, 2020, pagg. 112, euro 12.