Nel dicembre del millenovecentoottantaequalcosa, per una serie di circostanze che sarebbe lungo quanto poco utile spiegare, mi ritrovai a percorrere una strada assai lontana da casa: quella che collegava, e tuttora continua a collegare, Belo Horizonte a Brasilia. Di quei settecentotrentasei chilometri di strada – che oggi secondo Google Maps si percorrono in circa undici ore, ma che allora richiesero il doppio del tempo – conservo ancora una serie di fotografie, scattate con una di quelle macchinette usa e getta estinte dopo l’avvento del digitale. Sono foto strane, stampate in formato quadrato, hanno più di trent’anni ma presentano colori ancora brillanti.
La prima foto, a dire la verità, è totalmente sfocata, ma per me che ero lì è facilmente decifrabile: si tratta dell’auto che mi trasportò – una Alfetta marrone – immortalata alla partenza del viaggio, sotto un grattacielo di Belo Horizonte. Era una macchina di un certo pregio – ai tempi mi sembrava un po’ più allungata, mi viene da dire “un po’ più ammiraglia”, della versione europea – e strideva con il parco auto brasiliano dell’epoca, dove quattro macchine su dieci erano Maggiolini Volkswagen alimentati ad alcol – il primo carburante bio, ricavato dalla canna da zucchero. Nel traffico delle città le auto lasciavano nell’aria un odore difficile da descrivere, un po’ caramella un po’ frutta marcia.
Nella seconda foto ci sono io, con un cartello alle spalle su cui è scritto “CUIDADO! PIRANHA FEROZ”. È un cartello bianco, in legno, ricavato dal fondo di una cassetta da frutta, mentre la scritta è in vernice rossa, tracciata con precise pennellate. Il cartello sormonta una vasca di cemento lunga e stretta, una sorta di fossato di acqua melmosa che recinta le tre gabbie di questo “Mini Zoologico”, così si chiama il posto secondo quello che indica un altro cartello, visibile all’estrema sinistra della fotografia. Le tre gabbie imprigionano, rispettivamente, una coppia di tucani, quattro pappagalli coloratissimi e una grande scimmia nera, che fissa l’obiettivo con un’espressione così umana e così triste che verrebbe voglia di appoggiarle una mano sulla spalla e tenerla lì per sempre. Piranha nel fossato non credo ce ne fossero, in ogni caso non ho mai immerso le mani per verificarlo.
La terza foto è stata scattata pochi metri più in là, sulla gigantesca spianata di terra giallastra, oltre quella stazione di rifornimento che, unita al “Mini Zoologico”, costituiva il più esotico autogrill che io abbia mai visto. Si vede un capannone enorme con il tetto di paglia e una veranda – lo ricordo bene – caldissima, che corrispondeva alla zona bazar e ristoro. Dentro avevo comprato un cappello di paglia a tesa larga, avevo mangiato delle pannocchie di mais arrostito e bevuto una birra senza etichetta né logo, solo un tappo a corona dorato.
La quarta foto è scattata dall’interno dell’abitacolo. Si vede un tratto di recinzione in legno, sul genere di quelle dei corral dei film western, ma cerchiata di filo spinato. Ricordo che, in certi punti, recinzioni di quel tipo correvano per decine di chilometri di fianco alla strada. Subito dietro lo steccato, quasi al centro della foto, c’è un uomo a cavallo con un grande cappello da cowboy. Sulla coscia dell’uomo si vede una di quelle colt a canna lunga, con la fondina che arriva quasi al ginocchio. L’uomo controllava i confini del latifondo: non controllava che qualcuno entrasse, ma che nessuno uscisse. Qualche giorno prima avevo letto che, molto più a sud, una vecchia padrona terriera era stata ammazzata dai suoi braccianti, esasperati da anni di angherie, dopo che aveva dato in pasto alla sua muta di cani un cameriere che aveva rovesciato il vino a tavola. Leggendo l’articolo avevo pensato che fosse stato giusto ammazzarla. O forse era successo in Argentina, non me lo ricordo più.
La quinta foto sono tre ragazzini vestiti di stracci che prendono il sole sull’asfalto.
La sesta foto è un cavallo dal manto grigio, immobile in mezzo alla carreggiata.
La settima foto è scattata all’ombra di un albero enorme, sotto cui un venditore ambulante è intento a spremere il succo da una canna da zucchero schiacciandola dentro un ingranaggio composto da due enormi ruote dentate.
L’ottava foto è la facciata di una bettola di Paracatu, dove avevo dormito a metà viaggio perché tutti gli hotel della città erano occupati da un congresso minerario, quella era terra per cercatori d’oro. Le foto seguenti sono tutti scorci della strada: un campo di mais, una zona desertica, un’enorme lastra di pietra che esce per metà da un costone terroso – e sopra la lastra di pietra, incredibilmente, un albero -, rettilinei deserti alternati a declivi leggeri, corridoi tra la vegetazione più fitta alternati a spazi aperti, pietraie polverose, panorami cristallini, nuvole scure, improvvisi squarci di sole che sfaccettano il parabrezza come l’occhio di una mosca, e tutto racconta la stessa cosa: che viaggiare fa venir su un certo tipo di saggezza, ma non si sa mai con precisione come fare a utilizzarla.
Nella penultima foto c’è mio padre alla guida dell’Alfetta marrone. La foto non poteva prevedere il futuro, ma oggi lo contiene. La foto non dice che mio padre lavorava a Belo Horizonte da quattro anni. Non dice quanti milioni di chilometri aveva percorso in venticinque anni sempre all’estero, due in Cile, cinque in Kenya, quattro in Irlanda, e poi Svizzera, Danimarca, Norvegia, Argentina e – adesso – Brasile. La foto non dice che in quell’esatto momento della mia vita io ho venti anni e lui trenta di più. La foto non dice – ma si può intuire dallo spessore delle lenti degli occhiali – che lui è miope. Non dice che il cavallo grigio l’aveva quasi investito. Non dice che mio padre morirà qualche anno dopo, all’improvviso, come è tradizione di famiglia. Nell’ultima foto c’è l’Alfetta parcheggiata all’ingresso della Praça dos Três Poderes, a Brasilia, la città più irreale del mondo, capace di essere sterminata e vuota allo stesso tempo. La foto è stata scattata da qualche passante perché davanti alla macchina ci siamo io e papà: abbracciati, sorridenti, un po’ increduli di essere lì, increduli di essere al mondo. Poi ci sono altre foto, ma non dicono nulla di più.
Enrico Remmert