Avete mai sentito parlare di quelli che vedono un film due volte, ma non lo capiscono nemmeno la seconda? Me ne hanno parlato l’altro giorno ed ho sorriso ricordando quel professore di filosofia che, secondo Unamuno, iniziava il suo corso ponendo questa domanda ai suoi studenti:
-Qualcuno sa cosa veniamo a fare qui?
Unamuno disse che ogni anno, alla fine del corso, insegnanti e studenti continuavano a porsi la stessa domanda.
Sicuramente, tutti questi studenti tornavano a frequentare il corso e, alla fine del secondo anno, non riuscivano più comprendere la domanda dalla quale erano partiti. Mi ricorda i dodici anni che ho passato a studiare dai Maristi a Barcellona senza capire nulla. Quella scuola era come l’Istituto Benjamenta nel romanzo di Robert Walser: “Qui veniamo per imparare, ma non impariamo nulla”.
Mi è venuto in mente tutto questo quando, parlando dei film in concorso nel 2015, Thierry Frémaux, delegato generale del Festival di Cannes, ha detto che “The Lobster”, del grande Yorgos Lanthimos – una storia futuristica in cui chi non riesce a trovare un partner si trasforma in animale – era “uno di quei film in cui non tutto é comprensibile”.
Il giorno dopo, “Le Monde” ha pubblicò una breve antologia di film che erano diventati particolarmente famosi per non essere del tutto comprensibili. Prima di tutte Il sogno eterno di Howard Hawks, girato nel 1946 e considerato il pioniere di questa tendenza ad inserire l’incomprensibile in un contesto armonioso e sensato. Forse l’adattamento del romanzo di Chandler aveva troppi sceneggiatori, ma il fatto è che quando Lauren Bacall si mise a cantare in un tugurio, non fu chiaro perché. E si sa che, quando il produttore chiese al romanziere chi potesse aver ucciso l’autista della famiglia Sternwood, Chandler rispose: “Non ne ho idea”.
È una storia che ricorda quella che mi raccontò il romanziere Juan Marsé quando Víctor Erice stava lavorando con straordinaria meticolosità alla sceneggiatura di El embrujo de Shanghai. Un pomeriggio, Erice lasciò Plaza Rovira a Barcellona dove passava ore a prendere appunti, e chiese a Marsé che lavoro facesse il nonno di un personaggio secondario del romanzo. Dopo il primo momento di stupore, la risposta dello scrittore fu simile a quella di Chandler.
“Non capire è un’operazione in cui è conveniente investire molto tempo”, ha scritto Juan Tallón nella rivista Vozed, nel febbraio 2013. Ho investito molti anni nella prima frase di un libro di Pavese: “Lo chiamavano Pedro perché suonava la chitarra”. Poiché non c’era modo per me di capire cosa significasse quella prima frase, ho pubblicato un articolo nel febbraio 2001 chiedendo a qualcuno di spiegarmelo. E un giorno, non so dove, il grande José María Riera de Leyva si prese la briga di farlo. Mi ha dato dei dati molto precisi che giustificavano tutto, ma li ho dimenticati. Vale a dire, sono ancora lo stesso di prima. Ma a volte penso che sia meglio così. Dopo tutto, ho sempre avuto un modo molto semplice per capire se qualcosa mi piace o no: sono attratto da ciò che non capisco; se lo capisco, lo lascio in fretta.
Non dimenticherò mai quanto fui attratto nella primavera del 1963 dal film di Alain Resnais L’anno scorso a Marienbad, con una sceneggiatura di Robbe-Grillet. Ne ero affascinato perché non lo capivo ed ogni pomeriggio, dopo aver lasciato la scuola, andavo al cinema Savoy di Paseo de Gracia a Barcellona correndo il rischio che, in qualche momento sfortunato, potessi arrivare a capirlo. L’ho visto venti volte e venti volte non l’ho capito. Ho saputo solo che il film raccontava la storia di un uomo che, in uno strano e decadente hotel, cercava di convincere una donna che lei e lui avevano avuto una relazione l’estate precedente. Era un incontro immaginario? Lo sceneggiatore Robbe-Grillet e il regista Resnais erano in disaccordo su questo punto e su tutti gli altri aspetti del film. E i poveri o felici spettatori sembravano essere intrappolati tra i due, tra Robbe e Resnais, l’uno infastidito dall’immenso tedio, l’altro felice per l’entusiasmo prodotto da un’opera d’arte che, nelle parole del critico di Le Monde, “condannava il pubblico a non capire nulla”.
Ma il non capire è davvero una condanna? Direi piuttosto il contrario, non capire è la porta che si apre. Il film di Resnais dà un’idea di come sarà il sonno eterno che ci aspetta dopo la vita. Qualcuno sa esattamente come sarà? Nessuno. Possiamo solo intravederlo, ma in ogni caso, anche se lo percepissimo completamente, non lo capiremmo.
É probabile che il fascino prodotto da frammenti di film intelligibili deriva dal sospetto che queste sequenze dicano la verità su come sarà il nostro sogno eterno. Lo stesso accade nel mondo dei libri. Penso al Sordello, una poesia del Browning vittoriano, che ancora oggi resiste, non alla sua interpretazione, ma alla sua comprensione più elementare. Ricostruisce la vita di un trovatore del XIII secolo. Ma non si capisce nulla. Quando fu pubblicato nel marzo 1840, causò furore perché tutti volevano leggerlo per verificare che il poema non avesse né capo né coda. Lo scrittore argentino César Aira racconta nel suo saggio Lo incomprensibile che ciò che Browning disse nel Sordello fu letto da un uomo malato, amante dell’interpretazione dei testi. La moglie dopo aver comprato il libro gli lesse la poesia: “Le sue ultime parole (ironicamente morì quasi subito dopo averla ascoltata) furono: non ho capito niente, proprio niente! Oggi si specula se la sua morte sia stata dovuta alla disperazione o esattamente al suo contrario, che forse sia effettivamente morto di speranza. Forse quello che voleva veramente dire era: finalmente non ho capito qualcosa!”.
Una breve antologia del “cinema incomprensibile” non dovrebbe mancare di 2001: Odissea nello spazio (Kubrick), per i suoi tre minuti di schermo nero in apertura (che hanno generato tante leggende), ed alcuni film di David Lynch, come lo straziante Lost Highway. Si potrebbero aggiungere certi film di spionaggio, come l’oscuro La talpa di Tomas Alfredson, basato su Le Carré e totalmente pieno di labirinti interni impossibili da districare. Nulla di grave. Non dimentichiamo che il grande Einstein diceva che, in fondo, la cosa più incomprensibile del mondo è che sia comprensibile.
Enrique Vila-Matas