In un’epoca di visibilità a tutti i costi, di presenzialismo come unica “ragion d’essere”, la rilettura di un libro come Bartleby e compagnia di Enrique Vila-Matas (ottimamente tradotto da Danilo Manera) costituisce una sorta di sentiero lungo le molto più stimolanti tappe della negazione. Negazione di sé, negazione della scrittura, negazione di sé in quanto scrittori e, portato il tutto alle estreme conseguenze, negazione della vita o sua apoteosi. Vila-Matas, grandissimo scrittore spagnolo, sperimentale e spericolato, un anno fa, nel corso di un’intervista, disse che “Uno scrittore deve sapere che l’importante non è la fama o l’essere scrittore, ma scrivere.”
E allora, con una salto temporale, possiamo leggere e rileggere questo Bartleby e compagnia, che è uscito in Spagna nel 2000, alla luce di questa frase del 2016. Perché questo libro è una corsa dentro l’impossibile della scrittura, declinato, di volta in volta, nelle storie di quegli scrittori che con questa impossibilità hanno avuto a che fare. Un libro dunque sulla scrittura più che sugli scrittori. Note a piè di pagina, come scrive lo stesso protagonista/voce narrante, un grigio e gobbo impiegato che, ad un certo punto, si mette in malattia per scrivere un diario attraverso il quale raccontare la sua “caccia” ai bartleby della letteratura. Chi sono? Sono tutti coloro i quali, pur avendo spesso un enorme talento, affrontano le burrasche della negazione del mondo, smettendo di scrivere o non scrivendo mai, viaggiando per tutta la vita tra le pagine di un “libro invisibile ma non per questo inesistente.”
Bartleby e compagnia è un libro che parte, immediatamente, con l’ironia intesa come apertura: “Non ho mai avuto fortuna con le donne, sopporto con rassegnazione una penosa gobba, non mi resta un solo parente vivo, sono un povero solitario che lavora in un ufficio spaventoso. Per il resto sono felice. Oggi più che mai, perché do inizio – in data 8 luglio 1999 – a questo diario che sarà al contempo un quaderno di note a piè di pagina a commento di un testo invisibile che spero possa dimostrare la mia bravura come cercatore di bartleby.” E, nel libro, questo piccolo impiegato un poco kafkiano, ricomincia a scrivere dopo venticinque anni, proprio andando alla ricerca di ciò che si sottrae. E anche queste poche righe costituiscono già un ribaltamento: la scrittura che “ricomincia” lungo i segni lasciati da chi “ospita dentro di sé una profonda negazione del mondo.” Dando così vita a pagine che contengono quasi il meccanismo del comico.
Una passeggiata, questo Bartleby e compagnia, in quelli che lo stesso Vila-Matas ha definito i labirinti della letteratura del No, “[…] una tendenza che, aggirandosi intorno all’impossibilità della scrittura, si interroga su cosa sia e dove si trovi.” Impossibilità come parola chiave perché sembra proprio essere solo sul suo crinale la possibilità di iniziare ad interrogarsi.
Un testo che si potrebbe definire “metaletterario” se non sapessimo che lo stesso Vila-Matas odia questa come tutte le altre definizioni, e che allora chiameremo “libro nei libri”, sia quelli scritti sia quelli interrotti sia quelli che non hanno mai visto la luce. Una corsa lenta (uno di quegli ossimori tanto amati da Vila-Matas) tra nomi e percorsi, Rimbaud, Rulfo, Salinger, Bazlen, Walser, Canetti, Gide, Maupassant, Beckett, Kafka e altri. Talmente tanti da indurci a pensare che, in fondo, ogni scrittore si sia dovuto, necessariamente, confrontare con il mistero della scrittura in quanto ricerca impossibile e spesso vana.
Una letteratura del No di cui, in questo meraviglioso libro, rintracciamo un manifesto vero e proprio nelle parole di Marcel Bènabou, qui riferite al suo Perché non ho scritto nessuno dei miei libri: “Soprattutto non creda, lettore, che i libri che non ho scritto siano un emerito niente. Al contrario (che sia chiaro una volta per tutte), sono come sospesi sopra la letteratura universale.” Come dicevamo prima, dunque, il paradosso (nel senso etimologico del termine) di un testo invisibile e non inesistente di cui si scrive per poter dire che non si è scritto.
Il libro di Vila-Matas è quasi un viaggio dentro un enorme e continuo cortocircuito in cui anche la sottrazione sembra non “sottrarsi” alla vanità di un gesto di volontà, qualunque esso sia e qualunque sia il modo con cui ha indotto molti scrittori a non scrivere più e, altri, a non scrivere mai. Anche se bisogna fare attenzione (e ad un certo punto Vila-Matas ce lo dice, quasi sommessamente) alla differenza che corre tra “libro non scritto” e libro “non pubblicato”. Facendoci così entrare in un ambito ancora diverso. Quello di ciò che Harold Bloom chiamò (come il titolo di un suo importantissimo libro) l’angoscia dell’influenza che portano a parlare esattamente di fama e vanità. Vila-Matas ce lo racconta attraverso la figura di Walser, uno dei bartleby di questa entusiasmante galleria di “negatori del mondo”, scrivendo: “Più che orribili, per lui la fama e la vanità mondane erano completamente assurde. E lo erano perché la fama, ad esempio, sembra dare per scontato che sussiste un rapporto di proprietà tra un nome e un testo che conduce già un’esistenza su cui quel pallido nome sicuramente non può più influire.” Ecco l’angoscia dell’influenza ed ecco, evocato almeno in parte, il “blocco dello scrittore.”
Questa è l’ironia di Vila-Matas che costruisce un intero, meraviglioso libro su ciò e su chi, ad un certo punto, sparisce e si sottrae pur affrontando l’impossibilità di sottrarsi fino in fondo. Come diceva Bobi Bazlen, forse il bartleby per eccellenza, quando sosteneva: “Credo che ormai non si possano più scrivere libri. Per cui non ne scrivo più. Quasi tutti i libri non sono altro che note piè di pagina, gonfiate fino a diventare volumi. Per questo scrivo solo note a piè di pagina.” Che è quello che fa Vila-Matas in questo libro che appare, a tutti gli effetti, un omaggio proprio a Bazlen, il più grande scrittore non scrittore del ‘900.
Chi si rende devoto alla letteratura del No pare buttarsi nelle fiamme del più affascinante e paradossale mistero, quello dei buchi neri. Che qui diventano buchi neri letterari ed esistenziali, come l’immaginario Scapolo, a metà strada tra il Celibe di Kafka e il copista Bartleby di Melville, che, come scrive Vila-Matas “[…] spaventa, perché passeggia senza mezzi termini per una zona terribile, una regione di ombre che è anche il luogo dove dimora la più radicale delle negazioni e dove il soffio di freddezza è, in sintesi, un soffio di distruzione.” Un po’ come il letterato Chamfort di cui Camus disse che: “La sua attitudine estrema e crudele lo spinse alla negazione finale costituita dal silenzio.”
Tra letterati realmente esistiti e personaggi inventati ma più veri del vero, Vila-Matas riesce, tra le righe, a tessere il profondo e inevitabile legame tra scrittura e vita, in un inscindibile percorso parallelo tra rinuncia alla scrittura e immersione nella vita, come nel caso degli ultimi anni di Oscar Wilde, ma ci conduce anche nell’inscindibile legame tra scrittura e lettura. Lo fa con poche parole che, nel loro sottrarsi agli orpelli, sono un leggero macigno scagliato contro i lettori: “E siccome la maggior parte delle persone, invece di leggere il meglio di quanto è stato prodotto nelle varie epoche, si limita a leggere le ultime novità, gli scrittori si riducono nell’angusto ambito delle idee in circolazione, e il pubblico sprofonda ancora più giù nel proprio fango.”