Ermanno Cavazzoni, in un’intervista, dice che i sogni, forse, arrivano come aiuto per vivere la realtà. Queste parole mi suonano profetiche perché, dopo aver letto molti dei suoi libri, penso che ci sia una connessione tra la dimensione onirica di cui parla e quella letteraria che rappresenta e, ancora, che la sua letteratura mi sia stata utile, in molti casi, se non a vivere meglio la realtà, almeno per capirla un po’ di più.
Lui parla di giganti; un libro intero a descriverne abitudini, riti, vizi, vezzi, che la maggior parte di noi, tipo mio fratello, o il mio vicino di casa, dicono: “Allora è un fantasy”. “Eh no! Eh no, diamine, che non è un fantasy”, rispondo io, “è tipo un’enciclopedia dei giganti, tipo documentario per intenderci.”
“E a che ti serve?” mi ritorna sempre, puntuale, indietro. “A conoscere meglio i giganti!” dico io, ogni dannata volta sempre più allibita dalla stupidità della domanda, pronta ad ascoltare la seconda, ancor più stolta: “Sì, ma una volta che hai conosciuto meglio i giganti, che ci fai se manco esistono?”
Ecco, quando si arriva a questo punto, solitamente, taccio. Che vuol dire “che ci fai se manco esistono”? Nemmeno Montalbano esiste, eppure, cavoli, tutti vi ci siete appassionati! Che avete fatto in quel momento, mi domando io, per appassionarvi? Vi sarete affidati al racconto, no? Vi siete abbandonati, sedotti dal verosimile, e vi siete lasciati guidare dal narratore. E lo avete fatto perché ha conquistato la vostra fiducia. “E come avrà fatto a conquistare la vostra fiducia?”, mi domando ancora. Vi avrà creato un panorama riconoscibile, un contesto, una suggestione che vi ricordava qualcosa di conosciuto, nella quale stare comodi perché familiare e lì, nel mezzo, ci ha messo lui, Montalbano. Credibile in quel luogo perché naturalmente integrato in tutto il resto al punto da diventare imprescindibile da esso. Ecco, proprio questo, pari pari, è quanto successo a me con i giganti di Cavazzoni. E vienimi a chiedere che ci faccio io col libro sui giganti se i giganti manco esistono. “Ci faccio quello che ci fai tu con Montalbano”, mi verrebbe da dirgli, ma non glielo dico a mio fratello e al vicino di casa, ché tanto mi risponderebbero che Montalbano è vero perché uno come lui si vede dappertutto, mentre i giganti no perché di tipi come loro, in giro, non se ne vedono mai. Narrazione, cronaca. Realtà, surrealtà… che poi, io mi domando, ma che me ne faccio alla fin fine di uno che potrebbe esistere perché di uguali se ne vedono in giro sempre. Non è meglio leggere di qualcuno che non potresti incontrare mai?
Però non gli dico nemmeno questo a loro, tanto non potrebbero capire. Siamo tutti delle barche da alto mare, solo che scegliamo porti diversi: loro gettano le ancore nella realtà, io, invece, nella fantasia.
Adesso io vi ho nominato i giganti, ma Ermanno mica parla solo di loro. Ci sono animali fantastici, tipo il catoblepa (che incenerisce con lo sguardo ma che, per fortuna, vive alle sorgenti del Nilo quindi noi siamo salvi), il pirotoco (che vive, volando, nel fuoco e si sollazza su arrosti e all’interno di inceneritori), la mucca fantasma; ben quarantanove casi di scrittori inutili, questioni pruriginose circa l’implicazione sospetta in incendi di zombi e libri o santi analfabeti smalti traffico. Ma a starvi a spiegare tutto si farebbe notte e poi, ad esser franchi, si ucciderebbe il senso della faccenda.
Di mio vorrei aggiungere solo che:
1-mi sento molto fortunata ad averlo incontrato quella sera di novembre sul ripiano di una libreria;
2-mi riprometto di leggere tutta la sua bibliografia entro il 2014;
3-quando avrò un figlio lo crescerò con i suoi libri al posto delle fiabe;
4-se un giorno avrò l’occasione di poterlo intervistare, indosserò il mio vestito più bello e porterò mio fratello, così, magari, vedendolo comincerà pure a credere di poter vedere i giganti.
Storia naturale dei giganti
(Guanda editore, 2007)
«Il classico gigante è otto metri circa, con individui anche di dieci, salvo anomalie; e compare chiaramente e distintamente nel 1478, in Italia.
Quando si presentano fanno impressione; e anche quando cadono morti fanno impressione, per lo sconquasso, per i danni ai centri abitati, ai pedoni, alle donne, ai minori, che possono restarci sotto. Anche i cavalieri, se non sono svelti a levarsi, possono rimanere schiacciati; e corrono qualche rischio anche i paladini di Carlo Magno, che sono specializzati nella bonifica del territorio, ma che a volte dopo lo scontro, dopo averli tagliati alla base e fatti crollare, non si tolgono dall’area vicinale abbastanza in fretta. […] Oggi che i giganti non ci sono più, neanche come illusioni ottiche, se ne può vedere uno occasionalmente, se si è fortunati, ad esempio in una grande nube cirro cumuliforme quando è passata in cielo una burrasca. E anche questi, però, non sono più né da guerra né selvatici; in genere sono giganti sdraiati, indolenti […]. Molto instabili. Nessuno ci può fare affidamento. »
Gli Scrittori Inutili – Sette lezioni e quarantanove casi
(Guanda editore, 2010)
Un innocente sgambetto e raffinata critica alla costellazione dell’editoria: editori a pagamento, caste di scrittori, critici, giornalisti, poeti, pensatori. Una divertente e ricca catalogazione di quanto di più inutile ci sia intorno alla nascita e alla vita di un libro, in un’atmosfera, come al suo solito, favolistica. Cavazzoni, autodefinito “allievo principiante”, compila questo manualetto sottoponendosi alle sette lezioni dei sette maestri (di lussuria, gola, avarizia, accidia, invidia, ira e superbia) e combinando vizi a evenienze, ha raccolto e ordinato i quarantanove casi possibili, ospitando tutti quelli che “non sapendo come destreggiarsi nella vita, hanno pensato che il mestiere dello scrittore non gli sarebbe stato proibito”.
Da “Avvertenze per l’uso del libro”
«Chi voglia diventare scrittore inutile, non ha che da esercitarsi. Ed è raccomandato l’esercizio dei vizi che sono sette[…]Ma poiché non è facile a volte diventare anche solo scrittori, ci sono per questo le scuole. […] Ma neppure è facile diventare inutili, per quanto si studi, ci si applichi e ci si ingegni; a meno che la vita con le sue evenienze non ci venga in soccorso. E le evenienze è appurato che sono sette: le scuole che si frequentano, le famiglie da cui si viene adottati, le angherie patite, le speranze che sfumano, i fantasmi che vengono in visita, i vagabondi che si finisce per essere e le demenze da cui non si scampa.
Se si combinano i vizi con le evenienze si hanno esattamente quarantanove casi possibili, che sono quelli appunto qui raccolti e ordinati. »
Guida agli animali fantastici
(Guanda editore, 2011)
da “Le cicale”
«La cicala effettivamente passa l’estate a cantare, ed è falso che poi d’inverno vada a chiedere il cibo alla formica, sia perché la cicala si nutre di rugiada […] sia perché non ha la bocca, ma una specie di piccola lingua con cui lecca la rugiada. Poi se la cicala si presentasse alla porta della formica il primo problema sarebbe quello della comunicazione, perché è noto che le formiche non parlano, o se parlano, parlano talmente piano che nessuno, finora, anche con degli apparecchi acustici, è riuscito a sentirle. Mentre la cicala è abituata a urlare, ed urla sempre la stessa canzone, che può avere diverse intonazioni da soggetto a soggetto o da luogo a luogo, ma fondamentalmente ripete sempre lo stesso concetto, che è un’affermazione, una specie di sì ripetuto, sì sì sì sì, che è anche il suo modo di pensare, che cioè tutto va bene, su tutti i fronti, e che al mondo ci vuole dell’ottimismo, e l’ottimismo ridà vigore ai mercati, la gente spende, i consumi aumentano, le industrie producono, è un circolo, e quindi si dimostra che l’ottimismo alla fine produce le condizioni per essere ottimisti. »
Il limbo delle fantasticazioni
(Quodlibet Compagnia Extra, 2009)
«Se dovessi dare dei consigli ad uno cui viene voglia di scrivere, gli direi: parti dalle interiezioni, che forse sono la parte più negletta della lingua scritta: ah, ahimè, porco cane eccetera, sono la parte più trascurata dalla scuola. Gli direi: parti da un bel oh perbacco, da cui poi ne consegue qualcosa; […] Preferisco in genere i tipi che dicono perbacco.»
« “Signore, se ci siete, fate che la mia anima, se ce l’ho, vada in paradiso, se c’è”. È una cosa che fa un po’ ridere, ma anche che non ha senso, perché credere e non credere si elidono, stando alla logica; e se uno non crede non ha senso che preghi; e se però prega, diciamo anche solo per scaramanzia, per quello zero virgola zero zero uno di probabilità, non ha senso che esponga anche il suo scetticismo, perché se ci fosse per caso Dio, di sicuro ne terrebbe conto. “Signore, se ci siete…”, “Come se ci sono? – Dio è permaloso – aspetta che ti sistemo io”, e la preghiera allora è quasi controproducente; “…fate che vada in paradiso, se c’è”. “ No , aspetta, che per te c’è un altro posto, più adatto, fa un po’ caldo…”, e in paradiso il fratello del nonno di Daniele Benati è difficile sia riuscito ad andarci. Non si stuzzica Dio con i dubbi […].»