Giunta alla sua quinta prova poetica, Alessandra Corbetta costruisce con Estate corsara (puntoacapo editrice, pagg. 88, €15,00), un libro dall’intenzione poematica.
Al suo interno, la frattura causata da un sentimento non corrisposto diventa, a posteriori, constatazione di una stagione della propria vita.
In bilico fra la dimensione della perdita e quell’altra, in cui si realizza che qualcosa non è stato, non sarà mai più, i testi riuniti nel volume non raccontano tanto di una stagione fisica, l’estate.
In essi è chiamata a raccolta soprattutto un’altro tipo di stagione.
Parliamo cioè di quella stagione strettamente legata all’età giovane per il suo portato di speranza e di realizzazione. Quindi parliamo in questo senso dell’estate, stagione che permea di sé tutta la raccolta di Corbetta, a partire dal titolo.
Ancora meglio, parliamo di quel particolare momento della nostra esistenza, che inizia a consumarsi appena lo si pone di fronte alle intemperie dell’esperienza.
Abbiamo posto all’autrice lombarda alcune domande per meglio muoverci tra le pagine del suo libro.
Sergio Rotino
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Partiamo dal titolo, Estate corsara. Fa pensare a un saccheggio, rapido e violento. Nel leggere il suo libro però non si ritrova un rimando a qualcosa di simile.
Il termine “corsara”, in effetti, rimanda all’idea di predazione, di saccheggio, di un’azione furtiva e lesta in seguito alla quale ci rendiamo conto che qualcosa ci è stato sottratto. L’aggettivo, allo stesso tempo, derivando dal verbo latino currere, designa anche un correre forsennato, di chi è mosso dalla fuga da qualcosa più che dal raggiungimento di un traguardo. Così, la stagione fra le stagioni, come l’estate è considerata in questo lavoro, è il tempo in cui gli ombrelloni si aprono, i luoghi balneari si ripopolano e tutto sembra ancora possibile, ma è anche il momento nel quale tocca fare i conti con le assenze, con il non accaduto, con ciò che doveva essere e però non è stato. L’estate è corsara in questo senso, perché non realizza la promessa che aveva fatto e deruba del sogno, dell’illusione, trasformando tutto in un giro di giostra incompiuto, che lascia col fiato sospeso, le gambe a penzoloni e lo sguardo smarrito.
Un altro fattore che mi pare fondativo in Estate corsara è il movimento. Tutto riverbera l’idea di viaggio, dai repentini cambi di destinazione a quelli che potrei definire come inseguimenti fatti verso una figura fantasmatica, che perentoriamente si nega alla vista.
I luoghi, in Estate corsara, pur essendo facilmente additabili sulla cartina perché descritti e chiamati in modo realistico, diventano rappresentazioni di un paesaggio interiore sul quale si muove un percorso identitario, il cui punto di avvio è indicato dal sopraggiungere annunciato di un’assenza che, pur nella sua inconsistenza carnale, è presente in tutti i versi dell’opera. Se la figura-vuoto non può essere oggetto di descrizione poiché sottratta al processo di nominazione affinché cada in una damnatio memoriae, il suo passaggio non potrà mai essere dimenticato. E allora si fa traccia sulle città, perché i luoghi, molto più delle persone, sanno custodire quello che è stato e restituirlo, quando sopraggiunge il bisogno di riattraversarlo.
Resto sull’idea di movimento. Molti componimenti di Estate corsara portano il nome di luoghi, soprattutto toscani. Ma la continua frammentazione che lei applica nel costruire il filo narrativo mi pare crei un effetto distorsivo, che porta a edificare un non-luogo e a raffreddare le immagini. Se così fosse, lo ha voluto per ghiacciare il rischio di retoricità di alcune situazioni?
I luoghi menzionati in Estate corsara, pur nel loro realismo, non consentono di tracciare un percorso, di passare da qui a lì perché, come dicevo, il movimento che guida la raccolta è disordinato, è il moto di chi tenta di fuggire da un dolore che traghetta inevitabilmente verso un’altra fase della vita; le città diventano l’esternazione di un vissuto e, più che non luoghi, assumono le sembianze di spazi potenziati, caricati di una funzione che va ben oltre le loro caratteristiche geografiche o territoriali.
Mi pare che il suo sia un libro di addio, in primis a una certa stagione della vita. Lei vi sigilla le esperienze così da poterle trattare come tali, non solo come ricordi illanguiditi.
È proprio così. La raccolta è un saluto consapevole e definitivo a una parte di vita e alla persona che ha reso inevitabile quell’addio accelerando, con la sua improvvisa assenza, i tempi con i quali sarebbe altrimenti avvenuto. Come lei giustamente nota, però, c’è la volontà di tenere vivido tutto ciò che è stato e l’ostinazione di far sì che nulla divenga fioco o annacquato, perché il passato è e sarà sempre per me materia viva e spazio irrinunciabile al quale fare costantemente ritorno.
Stilisticamente, nei testi che compongono Estate corsara ho percepito, per quell’illusione dell’essere felici che svanisce e si cristallizza in una precisa epoca della vita, una nota crepuscolare. Quella corrente poetica è un suo riferimento letterario?
Il Crepuscolarismo è il movimento che ha sancito il mio legame indissolubile con la poesia. Dunque c’è senz’altro al suo interno molto di ciò che mi appartiene e, viceversa, è inevitabile che qualcosa di suo torni nel mio scrivere; più di tutto, credo, l’inquietudine mossa da una insoddisfazione atavica, scaturente dalla consapevolezza che il meglio è già passato e perciò perduto, messaggio insito in Estate corsara.
Collegandomi a questo, mi pare che lei recuperi soluzioni a cavallo fra primo e secondo Novecento, nel bisogno di “dire”, nell’urgenza di “raccontare” una storia che discende da un tratto fortemente autobiografico.
L’urgenza di dire presumo appartenga a chiunque si avvicini a qualsiasi forma artistica. Nel caso di Estate corsara il punto di partenza è certamente un fatto autobiografico, il sopraggiungere di un’assenza appunto, dal quale però ci si distacca, trasformandolo in un trampolino utile per affrontare un discorso più ampio sull’identità, sui cambiamenti che la vita ci costringe continuamente a porre in essere per continuare a stare nella nostra esistenza.