E’ il secondo romanzo per Lorenza Pieri che dopo aver vinto quattro premi ed essere stata tradotta in cinque lingue con ‘Isole minori’, torna in libreria, sempre per Edizioni E/O, con Il giardino dei mostri: la storia di come una palude indomata sia diventata un luogo di villeggiatura esclusivo. In un periodo a cavallo tra anni Ottanta e Novanta, un rinnovato afflusso di denaro invade il piccolo borgo di Capalbio, dove di conseguenza, fede politica, legami familiari, rigore morale, e identità sessuale sembrano perdere i loro contorni. Ma c’è un mondo parallelo che sta prendendo forma: è il Giardino dei Tarocchi dell’artista franco-americana Niki de Saint Phalle dove la giovane Annamaria troverà rifugio.
Lorenza Pieri scrive un libro ambizioso, biografico, e a tratti, di formazione, che parla di un’ Italia sospesa tra epopea rurale, e vento di cambiamento, dove i luoghi della Maremma sono il teatro perfetto della messa in scena dei mutamenti che avvengono in Italia, attraverso cui si assisterà alla nascita di un nuovo Paese.
Ne pubblichiamo un estratto in anteprima:
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L’idea che la campagna fosse un posto dove si potevano passare delle belle vacanze era già piuttosto popolare, ma circolava ancora l’idea che l’ospitalità venisse offerta in cambio di aiuto nei campi, cosa che non si è mai veramente realizzata, almeno non da quelle parti. Il casale rimessa era privo di luce elettrica e di riscaldamento, ma Sauro l’aveva pulito bene e dotato di un generatore. Aveva un pavimento di cotto usurato, sconnesso in alcuni punti ma di un bel colore e, soprattutto, era sempre lo stesso da quando era stata costruita la casa, nell’Ottocento. Appena gli fu chiaro che piaceva più delle maioliche a motivi geometrici che sua moglie avrebbe voluto per la ristrutturazione, si stupì ma fece tesoro di quell’informazione. Capì che usare gli aggettivi “antico” e “originale” al posto di “vecchio” e “rotto” avrebbe giocato a suo favore. Così all’interno dell’enorme camino che occupava la parete centrale del salone sistemò una panca realizzata con due vecchie traversine ferroviarie, che ogni volta che si accendeva il fuoco facevano puzzare tutto di catrame. L’olio del quale erano impregnate era cancerogeno, ma erano anni in cui si era piuttosto indifferenti alla tossicità delle cose, purché sembrassero “naturali”, le soluzioni “di una volta”. (…) Lui aveva detto che i suoi clienti andavano pazzi per i ferri vecchi. Lei l’aveva lasciato fa re, come sempre. Il giardino sul retro, per anni coperto di rovi e sterpaglie, era stato sistemato a dovere e tra i due alberi sopravvissuti – un leccio e un susino malato – era stata collocata un’amaca. Infine, il tocco di genio: legare al casale una storia. Tirò fuori un racconto che gli era stato fatto quando era piccolo da suo padre Settimio, alcolizzato, in tempi e luoghi in cui vivere bevendo troppo non era considerato un problema ma una cosa normale, se non addirittura un motivo per vantarsi di una certa resistenza fisica, quando si univa al lavoro di campagna. Settimio nascondeva i fiaschi sottratti alla cantina di famiglia in quel podere, già allora adibito a magazzino. E per tenere alla larga Sauro gli aveva raccontato che proprio lì era il posto in cui, alla fine dell’Ottocento, i carabinieri avevano catturato e ucciso il brigante Tiburzi, sorpreso in quella casa di contadini con il compare Fioravanti. Aveva aggiunto che in certe notti d’autunno era comparso il suo fantasma, che ogni tanto sparava dei colpi di fucile. Sauro ricordava che da piccolo, quando prima dell’alba sentiva le fucilate dei cacciatori, pensava sempre che fosse Tiburzi che era tornato. Anche quando seppe che la casa in cui l’avevano catturato era da tutt’altra parte, non smise di sentire gli spari fantasma. Tiburzi era una vera leggenda, spacciato per una specie di Robin Hood locale: rimasto latitante per ventiquattro anni con una grossa taglia pendente sul suo capo, non si è mai saputo se fosse un benefattore o un criminale. Probabilmente era tutt’e due le cose, i racconti su di lui lo dipingono un po’ come un giustiziere che vendica i soprusi dei latifondisti sui contadini, un po’ come un mafioso che chiede il pizzo in cambio di protezione. Ma un’aura di eroismo l’ha sempre conservata. Sauro ne approfittò. In ogni ristorante lo cale campeggiava una foto del brigante, sempre la stessa, scattata ormai da morto: era legato a un palo, con il fucile tra le mani senza presa e gli occhi semichiusi privi di sguardo.