Ezio Sinigaglia, versatile, eclettico, multiforme, di altissimo ingegno, torna in libreria con la ripubblicazione Pantarèi con la casa editrice Terrarossa, diretta da Giovanni Turi. La collana “Fondanti” che lo ospita ne riconosce, nel suo nome, l’autorevolezza di un’opera appunto ”fondante”, una pietra miliare nell’ambito culturale, un romanzo che lascia un solco profondo nella letteratura contemporanea.
E’ un romanzo meta-romanzo che si interroga e ci interroga sulla reale condizione del romanzo stesso: gode di buona salute o è definitivamente morto dopo la rivoluzione culturale del Novecento? Composto dal 1976 al 1980, pubblicato per la prima volta nel 1985 da una piccola casa editrice, “è piaciuto a tutti e non è spiaciuto a nessuno” – come afferma Sinigaglia – ma non ha trovato il motore per immettersi nella grande editoria, pur interessata, perché, credo, rivolto solo a lettori forti. Non tutti possono, difatti, accostarsi a questo gran bello libro, che presuppone dei pre-requisiti di conoscenza di autori quali Proust, Joyce, Kafka, Musil, Celine, Svevo…, autorità nel campo del romanzo, veri rivoluzionari del tempo interiore e della penna, che hanno messo in scena “uomini senza qualità”, per parafrasare la fortunatissima e mai più azzeccata definizione di Musil.
Veniamo al dunque: Daniel Stern (stella in tedesco), poligrafo di professione, su cui Sinigaglia proietta tanto di sé, funambolo della parola, viene incaricato da una casa editrice di comporre un saggio di quaranta pagine in cinque giorni sullo status del romanzo per una enciclopedia, rivolta al grande pubblico, specie femminile. Quindi, l’opera di Sinigaglia si struttura su un doppio binario: uno saggistico, relativo a quanto Daniel Stern va elaborando rispetto al romanzo, sulla base della lettura degli autori sopra citati, leggendo il monumentale Proust, per esempio, in francese; l’altro narrativo in cui in un flusso di coscienza il complesso protagonista, appena abbandonato dalla moglie Anna, bisessessuale ora disinvolto ora neghittoso, fine esperto della parola scaltrita e raffinata, saltimbanco e giocoliere, si immedesima nei personaggi delle opere, proiettando in essi la sua inquietudine e anche la sua inettitudine, tipica dei romanzi del Novecento. Uomo, lui, più votato al pensiero che alla azione, perso nell’incanto del suo parlare e del suo scrivere, incapace di fatto di affrontare la separazione da Anna, di vivere appieno la sua bisessualità pur sfoggiata, uomo travolto dagli eventi che non riesce a dominare e dirigere. Inetto, diremmo alla Svevo, ma mente superiore e animo inquieto, che vorrebbe vivere il presente, ma si trova sistematicamente catapultato nel passato. La narrazione, infatti, si fa de-lirio, nel senso etimologico di de-lirare, uscire dal solco della via maestra, per diventare turbinio di pensieri e di esperienze che non lo appagano, ma certo lo tengono in vita. Vero anti-eroe novecentesco, sprizza malessere da tutti i pori, ma dotato di qualità intellettuali superiori, capace di illuminare il mondo con la forza della parola. Così diventa un personaggio identificato con quelli delle opere che legge in modo onnivoro, vive gli stessi drammi esistenziali, le stesse insicurezze, le stesse inquietudini…
Dicevo che l’opera è stata composta dal 1976 al 1980, anni in cui era forte il dibattito circa lo status della letteratura e del romanzo, genere di difficile definizione da sempre, fin dalla classicità, sì da non lasciarsi imbrigliare nelle categorie. Un personaggio complesso non può che parlare di cose complesse in modo complesso. Lo stile è potentemente accattivante, allusorio ed evocativo e il suo pensare, scrivere e parlare è un flusso ininterrotto, in cui i tempi si sovrappongono alla Bergson. Il romanzo avrebbe dovuto chiamarsi I romanzi e i giorni: i romanzi ne sono la parte saggistica, i giorni quella narrativa. Poi il titolo folgorante: Pantarèi. Si, certo Parmenide ha perso, ed Eraclito ha vinto: tutto muta, oggi questo romanzo non potrebbe esistere, perché non ci sono più le enciclopedie cartacee, non c’è la vecchia Olivetti in copertina:” l’avanguardia di oggi è la retroguardia di domani”. Ma l’opera si rivolge soprattutto a cosa c’è fuori del Pantarèi; e cosa c’è qui? C’è Daniel Stern (la stella), identificato con un buco nero; c’è il romanzo Pantarèi che non ha subito sostanziali modifiche rispetto alla prima edizione; c’è la letteratura e, in primis, il romanzo, che non è affatto morto, stante la composizione dello stesso Pantarèi, il dibattito che sta scatenando, il fatto che da sempre si parli del romanzo come di un genere che sfugge al definito e al definitorio. Il romanzo è vivo e vegeto, quello di Sinigaglia scoppia di salute ed è un callido gioco di parole, con discese ardite e risalite.” Ingenua, dunque, quell’idea, come si può essere felicemente ingenui a ventott’anni. Ma anche beffarda, quell’idea, come si può essere irriverentemente beffardi a ventott’anni. Perché pensare di scrivere un romanzo negli anni Settanta del Novecento per dimostrare alla critica letteraria che il romanzo non è morto è un po’ come mettersi a camminare sull’acqua nell’ultimo decennio dell’Ottocento per dimostrare a Nietzsche che Dio è ancora in gran forma. Un atto di insopportabile presunzione. Ma anche un atto di eroismo.” Con queste parole Sinigaglia commenta l’idea balzatagli in testa di scrivere un meta-romanzo per dimostrare la vitalità dello stesso.” Atto di eroica presunzione”: nessuna definizione sarebbe stata più opportuna, che sottende la consapevolezza della genialità dell’opera e l’eroismo del personaggio Stern che si mette a combattere contro i mulini a vento proprio negli anni ‘Settanta, in cui si annunciava la morte del romanzo. Se qualcosa fosse ancora nato dalle ceneri sarebbe stato per imitatio e non certo per aemulatio. Sinigaglia, giovane ventottenne, invece batte una strada nuova, non beve alla fonte altrui e se ne viene fuori con questo beffardo progetto, affidandolo alla penna di Daniel Stern (Stella/Buco nero). L’ampia lezione di Fabio, suo alter ego, intorno ai buchi neri di cui si parlava ampiamente negli anni settanta e se ne parla tuttora, non rende però il meta-romanzo universale, ma solo, per me, rivolto a chi è attrezzato culturalmente ad affrontare una tematica impegnativa e ha la fantasia giusta per seguire con passione e divertimento il girovagare del pensiero sterniano e la competenza dottrinale della parte saggistica.
L’opera è perfettamente strutturata, e proprio a metà Stern incontra la sua parte femminile, Madame Stella, e diremmo, allora che, come in un romanzo che mai tramonta, al centro c’è la sessualità e che la voce di Stern e quella di Madame Stella si fondono in un unico fluire, altamente erotico, nel senso in cui lo era la parola per gli antichi. Questo gusto per la parola scelta, forbita, raffinata, giocosa, divertente ( nel senso etimologico del di-vertere) accattivante…pone l’opera fuori del pantarèi, e questa di staglia come eterno monumento al romanzo stesso.
Giovanna Albi
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Venne ad aprire un’anziana signora dai capelli color argento, e occhi neri vispi e un po’ sospettosi.
«Buongiorno» disse Stern. «Sono Daniele Stern. C’è Anna?»
Si domandava intanto inquietamente chi fosse quella bella signora che lo considerava con grande curiosità: forse la madre di Franco? Che cosa avrebbe pensato del fatto che il marito dell’amante di suo figlio si presentasse alla porta di quest’ultimo senza preavviso? Era questa davvero un’eventualità che non aveva considerato. Né Anna gli aveva mai parlato di questa deliziosa “suocera”.
La signora manteneva, con grazioso ma freddo riserbo, la porta semichiusa.
«Como ha dèto suo nome?» chiese poi con voce stanca e sottile.
Dunque la madre di Franco era straniera. Toh. Spagnola forse.
«Daniele Stern» ripeté Stern. E si pentì di essere venuto. «Sono il marito.»
«Marito?» la donna lo squadrò con quei suoi occhietti da volpe. «Marito de quala?»
A Stern riuscì naturale sorridere. Batté leggermente il dito sulla porta, indicando il biglietto da visita.
«Il marito della signora Anna Cavalieri Stern» recitò, enfatizzando l’ultimo nome.
La signora esclamò qualcosa che avrebbe potuto essere «Oh! Mon Dieu!» e, soffocando il proprio sgomento, perquisì con lo sguardo quell’ospite stupefacente per vedere dove potesse tenere nascosta la rivoltella.
«Ho bisogno di parlarle» si affrettò a rassicurarla Stern.
«Me despiace. No potete parlare.»
«Perché?!»
«Porché madame è usita. No è en casa. Iò sono la camerera. Sorry» e fece per richiudere la porta.
Ma Stern, non appena seppe che non era la madre di Franco, sentì di amare infinitamente quella donnina graziosa e minuta, dalla pelle incipriata, gli zigomi coloriti come quelli di una bambola, che parlava tutte quelle lingue contemporaneamente ed emanava un delicato e impossibile profumo di violetta. Tanto che lui, proprio lui, in genere così timido e impacciato da poter essere giudicato freddo, senza alcun pudore afferrò con tenera violenza la mano di quella sorprendente cameriera e, con voce carezzevole, la supplicò: «La prego, signora, posso restare ad aspettarla?».
[…]
«Si vulete. Ma no so quando la segnora va retornare» precisò.
[…]
«Posso farle compagnia?» domandò con un sorriso impacciato.
«Oh, assiedetevi, prego» rispose lei prontamente, indicando una sedia impagliata dalla parte opposta del tavolo sul quale stava stirando un grande lenzuolo azzurro.
Stern sedette. Oltre ad Anna, avrebbe dovuto portar via con sé, in salvo, quella deliziosa signora. Non già come cameriera: come nonna. Ma purtroppo non aveva un letto da offrirle.
«Di dov’è, lei, signora?» chiese timidamente.
«Como de dove?»
«Voglio dire: lei è straniera, no?»
«Iò? Italiana, italiana. Porché?»
Stern sorrise, imbarazzato, inquieto. Forse le sue domande suonavano come indebite indiscrezioni? Tuttavia, a questo punto, non si poteva non insistere.
«Ma… ehm… non ha vissuto sempre in Italia…»
«Oh, voi dicìte por mea prononsia, n’est-ce pas?» e rise, accennando con un dito alle proprie labbra.
Sì, Stern diceva appunto per via della prononsia. Si sentì sollevato mentre annuiva.
«Estò en Italia del mille novcento i quarenta, sapete? No è poco. Prima en la Riviera; della fine d’la gherra, achì. Vedete: lei està en Italia de meno tempo che iò.»
Simpatica e spiritosa vecchina. Parlava disinvoltamente, senza cercare le parole, proprio come se quello straordinario miscuglio fosse la sua lingua madre. La parlava, evidentemente, quella sua lingua personale, dal millenovecentoquaranta. Intanto continuava a stirare, con sapiente economia di gesti, sollevando solo per brevi istanti su Stern il suo sguardo da ragazzina furba, quasi traesse ispirazione dal viso dell’interlocutore per decidere ogni volta come rivolgerglisi, se con il lei o con il voi, che alternava in base a leggi imperscrutabili. Poi, con improvviso slancio, confidò:
«Iò me chiamo Stella.»
«Oh, anch’io!» uscì detto a Stern. E subito arrossì per la goffaggine di quella esclamazione.
«Quoi?!» gli occhi stupefatti di madame Stella lo fissarono. «No è nome de orno!»
«Stern» precisò Stern. «Vuol dire Stella. Come étoile, star…»
«Stern?! En quale lengua?» madame restava incredula: esistevano forse lingue che sfuggivano al suo controllo?
«In tedesco» disse Stern.
«Ah! Iò no parla todesco» e agitò una mano come a ripararsi da una presenza sgradevole o a prenderne le distanze. «Por la carità! Les allemands. Brrrr…!»
Atteggiò le labbra a una smorfia, una piega verso il basso che sembrò dovesse restarle appiccicata per sempre. Poi, come ricordandosi a un tratto di qualcosa, alzò su Stern uno sguardo urgente, da cane in ferma e, interrompendo per la prima volta il suo lavoro, puntò verso di lui il ferro a vapore sbuffante: «Lei todesco» accusò.
«No no! Italiano» si difese Stern. «Solo il nome è tedesco.»
«Ah bien!» madame ritrovò il suo sorriso e riprese a stirare. «Me pareva estrano.»
Ma doveva anche sembrarle strano che un nome tedesco potesse appartenere a una persona non tedesca. Rifletté per qualche istante; infine trovò la spiegazione.
«Juif!» esclamò trionfalmente.
«Ebreo, sì» confermò Stern. «Ma solo mio padre. Mia madre…» esitò. Che cosa doveva dire? Cattolica? «Mia madre no» concluse.
«Bono, bono. Ma el nome è juif!» e tanto le bastava. «El meo marito,» aggiunse, «le pauvre, il était juif aussi.»
[…]
«Eh, c’est la vie!» le riflessioni di madame Stella sfociarono infine in questa amara conclusione. Che si affrettò a tradurre: «È la vida, caro segnore. La malorosa.»
Stern non seppe far altro che espellere il fumo dal naso, con aria pensosa. Del resto, era sostanzialmente d’accordo.
«Noiotri estàvamo Dunkerque. En Francia, vous savez?»
Stern annuì. Sì, conosceva Dunkerque: c’era anche passato. Un tramonto livido d’estate. Una pioggia fine fine che pareva di novembre. Anna aveva voluto fermarsi a bere un tè. E avevano anche bucato, vicino a Dunkerque. Ma questo a madame Stella non sarebbe interessato.
«Mah!» sospirò lei. «Che va emportare? C’est fini.»
Queste parole sembrarono veramente por fine ai ricordi di madame Stella. E forse anche a quello strano colloquio. Depose la camicia bianca sopra il lenzuolo azzurro, raccolse tutta la biancheria stirata, disse: «Escusatemi» e uscì dalla cucina.
Stern non avrebbe mai saputo perché il suo franco-italiano scivolasse così frequentemente nello spagnolo. Pensò che sarebbe stato molto bello farle raccontare la storia della sua vita, registrarla, e poi trascrivere il racconto tale e quale, in lingua stelliana. Ma poi: no, si disse. Era giusto e seducente che una gran parte di lei restasse così: inspiegabile.