Era il 2012, o forse il 2013, non ricordo bene, ma poco importa. Quello che ricordo perfettamente invece è che ero sopravvissuto all’ennesima giornata lavorativa di dieci-dodici ore: montavo palchi per concerti, ero quel che si dice un facchino. Rimuginavo sulla mia vita passata e su quella che avrebbe potuto riservarmi il futuro, stanco marcio, spossato, quando mi decisi per la consueta tappa al bar per la solita birretta rinfrancante. Difronte, attraverso i vetri, potevo osservare la luce rischiarare la finestrella a griglia della cantina – convertita dal proprietario, ai limiti della legalità, in bilocale – dove vivevo insieme ad altri tre lavoratori semisconosciuti, più due cani. Nel bar, i soliti avventori e lì in mezzo un tizio taciturno che parlava solo con me e di una cosa sola: libri. Si avvicinò di scatto al mio orecchio mormorando tre parole: Versilia rock city. Seguite da altre due: Fabio Genovesi. E alla fine un imperativo trascinato dall’entusiasmo: Leggilo! Poi filò via, spedito sulla neve di quell’inverno bolognese.
Ebbene, quel romanzo, in quella cantina-bilocale che sembrava affossata nel bianco, riuscì a farmi compagnia, che a quei tempi per me era l’equivalente di un miracolo. Una compagnia sincera che solo Pier Vittorio Tondelli, tra gli italiani, era riuscito a offrirmi in quegli anni. Ma lui era morto da tempo. E sempre in quel bar, di tanto in tanto incontravo una vecchina assai arzilla: a occhio e croce poteva avere una novantina d’anni. Nel giorno del suo compleanno mi offrì una birra; in quell’occasione mi scappò senza pensarci di chiederle l’età, anche se me ne pentii subito, perché ci sono cose che non si devono chiedere. Perché lei non era solo un’anziana, ma prima di tutto una donna. Al che mi osservò con un luccichio tagliente negli occhi e subito dopo iniziò a ridere: «Ventinove, forse trenta, ma non son sicura. Sai, non ci penso sennò mi sento vecchia.» Quando feci per allontanarmi, mi afferrò per la manica del cappotto: «Ma dentro non me ne sento più di dieci.»
Ed è proprio sulla rappresentazione mentale del tempo che, con Cadrò, sognando di volare – ultimo prodigioso romanzo di Fabio Genovesi –, lo scrittore di Forte dei Marmi è riuscito a congegnare un impianto narrativo pressoché perfetto: un mosaico in cui ogni quadrato d’arenaria (ma in questo caso sarebbe meglio utilizzare il ciottolo) ha il medesimo peso dell’insieme, dove ogni dettaglio richiama quello precedente e quello che verrà dopo. Nulla viene lasciato al caso. La storia di Fabio, un ventiquattrenne appassionato di ciclismo che opta per l’obiezione di coscienza al fine di scampare alla naia, si incrocia – seppur trasversalmente, per mezzo di uno schermo televisivo o l’altoparlante di una radio – alla parabola di Marco Pantani, il Pirata, colui che di certo non amava le gare a cronometro e dava il meglio di sé in salita. Che sulle salite dei monti è riuscito ad aggiudicarsi la maglia rosa e un tour de France. La simbologia della montagna, che tornerà spesso nella lettura, è radicata in tantissime tradizioni sul concetto di elevazione e forza. Tanto è vero che il protagonista del romanzo, un ragazzo insicuro come tanti, riuscirà a trovare la sua strada proprio in un convento semivuoto tra gli Appennini, grazie all’amicizia del direttore, un personaggio sopra le righe e per certi versi illuminante.
Ma il bello è questo: io non sono mai stato appassionato di ciclismo, ma dopo aver letto il libro di Genovesi, non potrò guardare a questa disciplina sportiva se non con occhi completamente diversi, nuovi. Perché il ciclismo non è più un semplice sport dove si utilizza una bicicletta. Diventa la sfida dell’uomo contro i suoi limiti corporali e mentali, in quell’atto solitario che gli schiaffa in faccia salite tanto ripide da somigliare a specchi di cemento. Dove Pantani accelera per lasciarsi il più indietro possibile la sofferenza dello sforzo. Ѐ la corsa dell’uomo a dispetto dei minuti e dei secondi, contro quel domani che è oggi e quell’oggi che è per sempre. Strade piane e poi salite avvicendate da discese, sembrano segnare l’unico cammino per l’accettazione spensierata del proprio destino, che i Latini custodivano nella locuzione Amor Fati.
E come la vecchina al bar che dentro di sé si sentiva ancora bambina, con lo stesso tono Genovesi riesce a consegnarci una storia matura, attuale e commovente come poche: non ricordo nessun libro che sia riuscito nell’impresa di farmi venire le lacrime agli occhi, già a pagina 9! Un record bello e buono. Assoluto. Perché narrare attraverso lo sguardo di quel fanciullo che i più sopprimono nell’interiorità, lasciandolo annegare nella mancanza di meraviglia, non solo non è cosa da poco, è qualcosa di unico.
E come lettore voglio ringraziare Fabio Genovesi per avermi accompagnato in un viaggio incredibile. Prendendo in prestito le parole di Gian Paolo Serino, questo romanzo è riuscito a migliorarmi.
Roberto Addeo
Recensione al libro Cadrò, sognando di volare di Fabio Genovesi, Mondadori, pagg. 298, euro 19.