A due anni di distanza da Ogni coincidenza ha un’anima, Fabio Stassi torna in libreria con Uccido chi voglio, edito sempre da Sellerio.
Vince Corso, qui alla sua terza avventura – dire indagine non sarebbe del tutto corretto -, è un personaggio curioso, vive di libri (letteralmente: si guadagna da vivere consigliandoli) e attraverso i libri guarda la vita. Stassi si è inventato questa figura un po’ malinconica, nutrendo la propria narrazione di citazioni, letture, rimandi più o meno evidenti, andando così a creare una sorta di iper-finzione, un mondo a più livelli: esiste per se stesso, e al contempo esiste in quanto collage di altre narrazioni, al punto che lo stesso Vince – e il lettore insieme a lui – ne avverte la sostanza in qualche modo dissonante, fragile. È, in altre parole, un mondo in cui la parete tra realtà e finzione viene continuamente sfondata e ricomposta. Nell’attimo che intercorre tra sfondamento e ricomposizione, può capitare che qualcosa sfugga, un personaggio o una trama di un libro, ed entrando nella realtà finisca per contaminarla, modellarla. E proprio da questo movimento osmotico, tra materia finzionale e materia reale, nasce il grande fascino del libro.
Ma andando alla trama: di cosa parla Uccido chi voglio? Inizia con due fatti, apparentemente slegati tra loro. Vince Corso riceve una lettera da un individuo che si firma Queequeg – il nome del gigantesco ramponiere di Moby Dick. L’uomo gli chiede un colloquio nel carcere in cui è detenuto, lasciando intendere di avere importanti e urgenti questioni da discutere con lui. Questo il primo fatto. Quasi contemporaneamente, l’appartamento di Corso viene messo sottosopra e il suo cane, Django, avvelenato e ridotto in fin di vita.
Da qui in poi la situazione, per così dire, precipita. Le giornate di Corso si dividono tra la pena per il destino di Django, ricoverato in una clinica veterinaria, e una serie di morti il cui unico elemento in comune è proprio la presenza di Corso sul luogo del delitto – perché, a quanto pare, di delitti si tratta. A questo si aggiunga l’inquietante profilarsi di una setta di non vedenti dalle mire oscure (è evidente il richiamo al “Rapporto sui ciechi”, il lungo racconto incastrato all’interno di quel capolavoro che è Sopra eroi e tombe di Ernesto Sabato), e l’entrata in scena di un commissario, Francesco Ingravallo (ancora, evidentissimo il richiamo al Pasticciaccio di Gadda), che pare ritenere Corso colpevole dei delitti.
L’atmosfera del romanzo è permeata di un senso di disfacimento, di sfacelo imminente. L’andamento è quello di uno sprofondamento, Corso si trova a scivolare dentro una realtà che assume via via i contorni di un’allucinazione. Attorno gli si agita un’umanità bizzarra, sempre in bilico tra la realtà e la fiaba, personaggi che sono quasi fantasmi. Siano questi apparizioni di un attimo, un mimo che suona un violoncello sfasciato, una donna incontrata in un bar che dice di non credere più nelle parole. Oppure personaggi ricorrenti, come Gabriel, il portinaio dello stabile in cui Vince abita, o Marta, la sua migliore amica. Hanno tutti una consistenza labile, sembrano pronti a dissolversi da un momento all’altro, portandosi appresso le loro gioie e dolori, i piccoli moti che li animano.
Delitti, macchinazioni, carcerati, un commissario che indaga. Un noir, dunque. Aggiungo: un ottimo noir. E non tanto per la presenza di quegli elementi e stilemi che solitamente ne definiscono il genere, quanto più per un fatto di intenzioni, di atmosfera generale. Del noir possiede la luce e il sentimento di fondo, una dolenza che è sempre lì, quasi una nebbia, che il protagonista attraversa pieno di domande e con pochissime risposte. E ne possiede, anche, il ritmo, il passo lento e sofferto, distante, per intenderci, dalla velocità rapinosa di un thriller. Ne nasce una lettura intensa, molto più incentrata sul Male e la sua natura, sulle motivazioni del crimine, che non sul semplice disvelamento dell’intrigo, sull’individuazione di un colpevole. Il tutto eseguito con una scrittura pulita ed elegante, sullo sfondo di una Roma tragica e bellissima, pur nei suoi scorci più dimessi e degradati.
In definitiva, poco importa quale sia l’inquadramento del romanzo all’interno di un genere o un’etichetta. È buona, buonissima letteratura. E tanto basta.
Recensione al libro Uccido chi voglio di Fabio Stassi, Sellerio, 2020, pagg. 234, euro 14.