Una prosa sinuosa e fluida come il corpo della bella Ninfa accompagna Fabrizio Coscia nelle profondità del discorso amoroso lungo “I sentieri delle ninfe”. Un viaggio dell’anima sedotta dalle lunghe gambe del divino Eros. Una possessione delirante, come quella divina manìa platonica, cattura nella rete l’innamorato: ”Caro Fedro, non ti sembra, come sembra anche a me, che io sia sopraffatto da un’eccitazione di origine divina? “ Assolutamente, Socrate. Contrariamente al solito, un fiume di parole ti possiede. “ Allora taci e ascoltami. Perché il luogo sembra davvero divino e così non ti stupire se, nel prosieguo del discorso, finirò con il cadere più di una volta preda delle Ninfe (nympholèptos). L’allucinazione divina dell’amore è di gran lunga da preferire alla moderazione, di natura umana, e l’uomo nulla può di fronte alla forza devastante di Eros, che ci scorta lungo i sentieri del piacere delle Ninfe, che oltre ai tratti divini, sono anche un topos, un locus amoenus, come si racconta in uno degli Inni omerici ( Telfusa, la fonte calda della Beozia, a cui si rivolge Apollo in cerca di un luogo dove fondare il suo culto, risponde in qualità di Ninfa del luogo, ingannando il dio e invitandolo a edificare il tempio altrove, infastidita dalla sua irruzione). Ogni Ninfa cambia nome a seconda del luogo che abita: le Oreadi sulle montagne; le Driadi dentro le querce; le Pegee presso le sorgenti; nelle fontane le Creniadi; nei fiumi le Potameidi; nei laghi le Limniadi. Negli abissi del mare nuotano le Neireidi, figlie di Nereo e dell’oceanina Doride; il cielo è popolato dalle Aurae e dalle Pleiadi. Sicché, il discorso amoroso si dipana anzitutto nei luoghi, spesso occulti, abitati dalle Ninfe, creature divine che attraggono, seducono, nella fuga. L’innamorato le rincorre per luoghi perigliosi, irti di inganni, cade e si rialza e non ha pace finché non vede appagata la sua cupido amoris. Il vaneggiamento trabocca di parole e di immagini inconsuete; la gelosia rende facile preda, come quella che lega Pierre Bonard a Marthe, la modella più dipinta nella storia dell’arte. La Ninfa assume i tratti della donna amata e vagheggiata, di Dora Markus di Montale e Albertine di Proust, quelli dei panneggi botticelliani, e dei dipinti del Ghirlandaio. Si staglia nitida e pura la Laura di Petrarca; la morbosa Lolita possiede la mente in fumoso delirio di Nabokov. Qui si configura come l’Angelica di Ariosto e lì vive nei film di Alfred Hichcock e Jean Vidò fino a chiudersi nella donna del mistero di Schubert. Fabrizio Coscia, talentuoso critico letterario e teatrale costruisce in un densa rete di parole seducenti un viatico a chi voglia percorrere la strada che conduce al piacere, nell’esatto punto in cui Eros e Thanatos convergono, in cui il plateau è “una piccola morte”. L’amore, lo dicono i Greci, lambisce la sfera divina, tocca la vertigine del pensiero e la sua rientranza, getta nell’esaltazione e nella fuga, ci tocca, ritorna e scompare, ha la sinuosità di un bellissimo corpo di fattezze sovrumane, lì il seno incontra la vagina, lì l’uomo va verso la donna, lì il divino si fa carne, lì l’eterno miracolo della coincidentia oppositorum della danza di Shiva. La rete di Afrodite ci tese l’inganno eterno, rimaniamo irretiti entro la fonte del piacere che trabocca parole inconsulte. L’attrazione per quelle gambe da sublimare in versi era diventata un’ossessione per Bazlen, un bisogno non rinviabile. Dalle gambe intraviste in foto di Dora, Montale ricostruirà una intera personalità; qui il dettaglio si fa poesia e sale verso l’universale, nel punto in cui umano e divino convergono in un altrove. La poesia è spostamento, necessità di elevazione, dopo la dura e abissale prova della carne. Nella carne ci inabissiamo e da qui rivolgiamo lo sguardo al divino, a quella Ninfa predatrice, che ci alletta e ci fugge, perché questo sì è certo: il piacere dell’Eros è l’ultimo inganno, l’ultima illusione di cui vale la pena di essere schiavi. Ci spostiamo lungo i sentieri del discorso amoroso, cadiamo supplici e ci rialziamo intontiti, beati e perplessi, mentre lei, la Ninfa, si allontana da noi, che puntiamo lo sguardo audace sull’ultimo respiro di gloria che Lei ci concede. Ma cosa di più ci pone di fronte alla Ninfa di un dipinto? Bonnard ferma il tempo sulla tela. La donna ninfale, Marthe, è di eterna giovinezza, quel corpo da amare è ritratto fuori dallo spazio/tempo, perché nella storia si invera la menzogna. Se la sua vita è stata una menzogna, la verità è nel nudo corpo ed è quello che lui ha sempre dipinto. L’arte sublima la falsità della vita e di questa diventa extrema ratio. Si potrebbe contrarre e rilasciare la mente che mente, irretita ad infinitum su un tema che scotta e alletta, ma credo di avervi condotto entro tali sentieri, in cui, anche se il tempo è nuvoloso, tutto è imbevuto di luce mediterranea, come nel quadro La fenetre di Bonnard.
“In fondo, esiste anche una punizione dello sguardo. Ce lo raccontano i miti greci, come quello di Atteone e Diana, di Semele e Zeus, di Penteo e Dioniso, o di Orfeo ed Euridice, tutti narrati in quella mirabolante miniera di storie che è Le metamorfosi di Ovidio. Che cosa hanno in comune questi racconti mitici? In tutti i casi essi ci dicono che non esiste innocenza nello sguardo, che c’è una violenza, una colpa dello sguardo, perfino – o forse soprattutto – nello sguardo amoroso. Atteone che sorprende Diana nuda mentre fa il bagno con le sue Ninfe e, trasformato in cervo dalla dea adirata, viene sbranato dai suoi stessi cani; Semele incenerita dalla visione divina del suo amante Zeus; Penteo che spia le baccanti e per questo è fatto a pezzi da loro e da sua madre; Orfeo che perde la sua sposa Euridice, perché si volta a guardarla mentre risalgono dagli inferi, contravvenendo al divieto di Persefone: pagano tutti la stessa colpa. E in cosa consiste questa colpa? Nel desiderio di guardare oltre, di interrogare (del resto, il verbo greco erotao, che è il termine più vicino a eros, significa proprio «interrogare»), di voler violare, scoprire la verità dell’Altro, disvelare l’essenza di ciò che possiamo percepire solo come immagine, il desiderio di capire, cioè, che cosa si nasconde dietro l’immagine. Ma ciò che si nasconde dietro l’immagine è una profondità illimitata. Lasciandosi accecare da ciò che vede, pertanto, lo sguardo si smarrisce in una visione che non ha fine, perché quel che vede non ap- partiene al mondo della realtà e questa sua disappartenenza (la disappartenenza di Nympha al mondo) ci abbaglia con una luce che costringe tuttavia a persistere nella visione, seppure condannandoci o a non essere più quel che siamo, a diventare altro da noi stessi, o a perdere l’oggetto della visione, a sua volta mutato in qualcos’altro, eternamente fuggevole. Ed è una luce, quella emanata dall’immagine, che è anche un abisso vertiginoso, nel quale siamo tentati di precipitare, spaventati e attratti.”