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“Fare scultura è come stare sulla poltrona dello psicanalista”. Intervista a Ugo Riva

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Ugo Riva

Lo scultore Ugo Riva presta l’anima e le mani al mistero, a una melodia che prende forma e si erge potente nella fermezza delle sue maternità come nel soffio dei suoi angeli e nelle sue donne accarezzate dal vento.

Guido da Milano a Treviolo, vicino a Bergamo, e busso alla porta rossa del capannone dove un simpatico cartello sbiadito avverte “Non disturbare – genio al lavoro”. Apre la porta Ugo Riva: capelli grigi legati in un codino, giacca di pelle, sigaro e gentilezza limpida, al netto dei convenevoli.

L’ingresso è pieno di sculture, una gabbia per terra con la porta aperta, rami secchi e più in là, nel locale più ampio, la scultura della donna alla quale sta lavorando.

Mentre cammino intorno alla scultura Ugo Riva spiega che «la scultura ha bisogno di spazio, deve respirare e devi osservarla anche da lontano. Per questo mi sono trasferito qui da un castello del mille dov’ero prima, molto bello, ma non abbastanza spazioso e pratico».

Mercedes Viola

 

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Com’è arrivato alla scultura?

Il disegno è stato il primo amore, ne ero appassionato fin da piccolo e ancora oggi è la mia prima forma di espressione: tutto nasce dal disegno. Le tematiche sono sempre state un tentativo di risposta alla domanda Chi siamo, dove andiamo, da dove veniamo?, come in questo quadro (dice indicando uno dei dipinti appesi al muro) dove gli uomini si allungano tantissimo verso l’alto cercando di respirare. Avevo diciotto anni allora. Poi un giorno un caro amico, osservando i lavori e i materiali che utilizzavo e accostavo, mi chiese se non avevo mai pensato di fare scultura e mi si aprì la mente a questa prospettiva.

Contemporaneamente alla scultura ho lavorato in banca, fino a quando, intorno ai quarant’anni, l’amministratore delegato Giorgio Brambilla, apprezzando le mie opere, mi disse «Ricordati che hai una vita sola, non c’è quella di scorta. La tua è la scultura: vai!», spingendomi a prendere quella che vedeva chiaramente essere la mia strada. Lo ringrazierò sempre. Da lì a poco, con la benedizione di mia moglie, mi sono dimesso, non era poca cosa considerando che avevo famiglia e la sicurezza che significava ai tempi lavorare in banca. Da quel momento la scultura è diventata la mia vita.

Oggi è bello vedere, come successe lo scorso anno nella mostra Natus in San Lorenzo a Firenze, trent’anni di lavori tutti assieme che dialogano uno di fronte all’altro. Osservare i cambiamenti da quando ero figlio, poi padre e ora nonno. C’è un passaggio micidiale, è stata come una guarigione.

Da cosa doveva guarire?

Quando avevo cinque anni ho perso mio padre, e con mia madre ho avuto un rapporto molto complesso, a momenti problematico, e queste mancanze percepite, il senso di abbandono che provavo, generavano un bisogno di protezione che trovava forma nelle opere.

Da lì il tema delle maternità?

Io vivo di folgorazioni, e ne ho avuto una quando ho rivisto la maternità di Piero della Francesca a Brera. L’avevo guardata negli studi giovanili ma non l’avevo mai vista. Vedere è un’altra cosa. Non sono scultore di pezzi a spot o a comando, mi sento un autore e come tale ho bisogno di un tema sul quale lavorare per tanto tempo.

La maternità credo sia stato quello dominante nella mia poetica.

 

Il tema: lo cerca o arriva?

Il tema esce da solo. Se hai un animo felice e sereno probabilmente ti vengono roselline e uccellini, altrimenti emergono le problematiche che hai dentro, insieme a un imprinting ben preciso con il quale sei nato e che, se sei sincero, se sei profondamente autentico, come mi spingeva sempre a essere il grande amico Mario de Micheli – critico al quale mi affezionai come al nonno che non ho avuto – esce spontaneamente con tutta la tua anima, la tua storia, unica e inconfondibile.

Come nasce una scultura dopo che ha trovato il tema (o il tema ha trovato lei)?

Parto dai disegni: le uniche cose a cui sono affezionato. Sono fondamentali perché nel disegno lavoro a livello inconscio. Solitamente da una emozione oppure da un pensiero poetico o filosofico, butto giù sulla carta quello cha arriva e poi, guardando anche nel tempo, spero scatti qualcosa. Il disegno, come dice Pontormo, è la prima espressione dell’anima, non è mediato da nulla. Se c’è qualcosa esce, altrimenti… buio totale!

A volte disegno cose che in scultura non stanno in piedi ma le tengo lo stesso, non si sa mai. Succede di utilizzare disegni dopo anni, al momento non eri pronto. Mario Radice scrisse per una mia mostra a Como, una vita fa, che il mio disegno era più avanti della scultura. Aveva assolutamente ragione. Costruire una scultura è come costruire una casa, ci deve essere un progetto che parte dalle fondamenta. Per questo quando incontro scultori che non disegnano ho molte perplessità, a meno che non rincorrano sempre allo stesso soggetto.

Se il disegno è l’unica cosa a cui è affezionato, cosa sente quando vede le sue sculture?

Niente! Sono assolutamente distaccato da loro, come non le avessi modellate io. La scultura è talmente faticosa, che a un certo punto non ne puoi più e no vedi l’ora che vada via per la sua strada. In genere preferisco anche non sapere chi le acquista, e se le incontro le guardo assolutamente distaccato, con occhio critico. Mi preoccupo solo che funzionino ancora, ma soprattutto mi preoccupo di capire se stanno bene nel luogo dove stanno. Al Vittoriale degli Italiani di Gardone, per esempio, quando le incontro, capisco che sono felici, che sono in armonia con il luogo.

Per chi sono le sue sculture, a chi parlano?

In primis le opere sono per me. Fare scultura è come stare sulla poltrona dello psicanalista. Escono da sole, sono una liberazione. Non mi preoccupo del parere degli altri. Sono testimone del mio tempo e ho consapevolezza che le mie opere sopravvivranno non solo a me, ma a tutti i miei contemporanei, a critici, a storici, a te che mi intervisti, e si confronteranno nel tempo per centinaia di anni con altre persone, altre culture. Il parere quindi di chi mi sta davanti e giudica ora è piuttosto relativo, sia nel bene che nel male. Presunzione? Anche, ma pura verità. Il rovescio della medaglia è che hai una grande responsabilità nel licenziare un’opera sapendo che ti sopravvivrà. Per conoscere un artista propongo sempre il consiglio di Mario De Micheli – «Quando vuoi studiare un artista, non leggere cosa dicono i critici, vai alla fonte direttamente e leggi i loro scritti». Tant’è che pubblicò nel 1995 con Bruno Mondadori Editore Carte D’artisti. Lettere, confessioni, interviste. Due tomi che non mancano nella mia libreria.

Mi interessa lo sguardo di chi sta “fuori” dal giro, quello del pubblico “normale” che, arriva con l’approccio del bambino, con l’emozione pura quasi primordiale, senza preconcetti o infrastrutture mentali. Non m’interessa lo sguardo di chi è tutto preso nel voler capire, scoprire da dove vieni, a chi hai “rubato” qualcosa per poi classificarti e incasellarti nel suo schedario personale. Tutti hanno rubato nell’Arte. Gli unici a non farlo sono stati gli uomini di Altamira o Lascaux. “Nessuno è figlio di nessuno” come canta Enzo Avitabile in una bellissima canzone. Tutti abbiamo preso acqua dalla stessa fonte. L’importante è non essere dei replicanti e portare altro. Poco, magari, ma altro, nuovo. Un altro che comunque commuova. Alla fine tutti i discorsi a supporto dell’arte, che siano estetici, concettuali, formali etc., cadono, non contano nulla, se manca quello fondamentale del commuovere, non stupire ma commuovere nel senso etimologico del termine.

Insiste seduto al tavolo o aspetta l’ispirazione?

Ognuno trova il suo metodo, il mio è semplice. Se non ho nulla da dire, se non ho dentro il fuoco, devo aspettare che arrivi. Faccio altro.

Ha paura quando non c’è il fuoco?

Terrore. Quando il fuoco non c’è è una tragedia, è la mia angoscia. Ho passato un lungo periodo così, avevo in aggiunta problemi di salute e il fuoco sembrava scomparso. Mi ero rassegnato. Poi è nata Luce Aida, la mia nipotina, e si è spalancato un universo nuovo. Ho ripreso a bruciare.

Da dove arrivano i suoi angeli?

Gli angeli nascono da una convinzione che ho di aver avuto sempre mio padre alle spalle. Puoi definirmi paranoico – ognuno si salva come può – ma nella vita ho attraversato diverse situazioni che mi hanno fatto capire che tutto è scritto, che esiste un destino, e che se sei nel solco del tuo destino c’è qualcuno che ti porta e tutto funziona, fino al giorno in cui cambiamo corpo. È un mistero.

Sono partito da due angeli che ho immaginato essere i miei due angeli custodi, un maschio e una femmina. Più tardi si è inserito un grande bisogno di leggerezza. Dovevano volare. È iniziata una ricerca estetico formale, partendo dal concetto che il vuoto è più pieno di quello che normalmente definisci pieno. Sono nate cosi Grande Anima e l’ultimo Grande Spirito, fusione in alluminio di tre metri. Muovono da questo presupposto e rappresentano per me protezione e la proiezione per quello che sarò e saremo.

 

È credente?

Del cristianesimo l’unico fondamento che sento mio è la figura di Cristo, del resto penso che la spiritualità sia evaporata. La chiesa è secolarizzata. Non frequento più le funzioni religiose, il rito della messa ha perso sacralità, è scomparsa la gestualità dell’officiante che addirittura volge le spalle al tabernacolo. Non c’è più il profumo dell’incenso, i canti cambiano in ogni parrocchia con musiche dozzinali sovente strimpellate da chitarre scordate.

Si costruiscono chiese come si fa per le fiere, i musei o le cantine “firmate” per i vini – le si affidano anche a ottimi architetti che però non hanno il senso della spiritualità e che con raffinatezza realizzano manufatti esteticamente magari ineccepibili ma che non sono chiese. La chiesa è un qualcosa che sta nella tradizione millenaria, ha delle regole strette e stringenti e non si può lasciare alla libera interpretazione di tizio o caio. Nascono così luoghi che non hanno più un linguaggio comune riconoscibile per la comunità, luoghi senza identità. Pensiamo sola alla scomparsa dell’elemento campanile. Le campane che fine hanno fatto? Il loro suono unico dove sta? Sostituiti dal cd e dall’altoparlante. Ma di che parliamo? Luoghi privi del senso del mistero, dove il raccoglimento è impraticabile e che non diventano mai cassa di risonanza della spiritualità, soprattutto ora che il rito ha perso tutti gli elementi che lo identificavano. Si è puntato tutto sulla parola, ma la fede va oltre la parola, si alimenta anche attraverso altri segni. Tutte le religioni hanno mantenuto il loro impianto rituale inalterato. Ci immaginiamo i buddisti che abbandonano i canti gutturali da pelle d’oca sostituendoli con canzoncine alla moda? Non sono assolutamente un preconciliare ma credo la chiesa con il Vaticano II abbia buttato via con l’acqua sporca anche il bambino che stava in lei.

La mia spiritualità comunque rimane viva in me al di là di loro.

Cosa pensa del successo nell’ambito dell’arte?

Cosa vuol dire successo? Che se vendi sei bravo, se non vendi non vali niente? Che sei il numero uno perché la banana che hai appeso alla parete della galleria d’arte trova un idiota che l’acquista per centinaia di migliaia di euro quando la può trovare al mercato per 50 centesimi?

Non è questo quello che ritengo successo.

Il successo per me è quello di poter vivere della mia scultura dignitosamente, senza dover subire condizionamenti creativi e avere le risorse per continuare ad approfondire la mia ricerca interiore e pure quella estetico-formale.

Ho passato momenti di grande difficoltà, e ho capito che quello che conta è assolutamente l’autenticità. Non tradire se stessi, che automaticamente vuol dire non tradire gli altri lasciando testimonianza limpida del proprio esistere. Il motto è: ogni opera ti sopravvivrà.

Non sono un produttore seriale. Ogni anno modello massimo cinque o sei sculture, non di più. Fortunatamente con le fusioni in bronzo posso realizzare diversi esemplari di queste opere. Ognuno è un unicum perché le modifico e a volte le stravolgo in fase di ritocco a cera, prima della fusione, ma soprattutto si differenziano nella policromia finale delle patine, che è la mia caratteristica, il mio stigma.

A cosa sta lavorando?

Adesso sto lavorando a un progetto dedicato a Rosy Medri, medico marchigiano che non ho mai conosciuto. Succede che Rosy visita la mostra nella Fortezza Medicea in Arezzo e s’innamora di Grande Anima, l’angelo che dava pure il titolo alla mostra La porta dell’Angelo. Avevo, dopo alcuni mesi dalla prima telefonata, un appuntamento a Bergamo con lei e il marito, oggi il caro amico Valerio. Prenoto loro l’albergo ma la mattina del loro arrivo, Valerio mi chiama informandomi che la signora ha avuto una emorragia ed è in ospedale. Rosy dopo due mesi ci lascia. In questo tempo di dolore e angoscia io e Valerio ci sentiamo quasi quotidianamente e lui entra nella mia vita, io nella sua.

Ci incontriamo dopo altri mesi per la prima volta a Bergamo con Annalisa, sua figlia, e nell’occasione decidono di acquistare Grande Anima, che è anche il nome dell’associazione creata per ricordare l’opera e il pensiero di Rosy. Tra noi nasce un rapporto molto stretto e profondo. Succede nella vita di incontrare qualcuno con cui immediatamente ti “trovi bene” come se ci si conoscesse da sempre . Così è stato con Valerio. Non so perché e nemmeno come, ma leggendo il libro delle sette parole che racconta il percorso di Rosy decido di dargli corpo con la mia opera. Un bisogno mio di riflessione su tematiche condivise. Credo io e Rosy saremmo andati molto d’accordo. Valerio rimane un poco “interdetto” perplesso davanti a questa scelta autonoma e credo all’inizio pure un poco preoccupato. Gli giro i disegni che di getto escono e lui si entusiasma. In questo tempo sospeso di pandemia lavoro sulle sette parole con una energia e frenesia mai provata nemmeno nei giorni più ispirati. Vuol dire che sono sulla strada giusta. Anche questa volta ho fatto bene ad ascoltare le voci flebili dell’anima.

In questo progetto sto sperimentando materiali e linguaggi nuovi. Non mi sono mai posto il problema della riconoscibilità attraverso stilemi o soggetti ripetuti. L’identità è intrinseca se sei autentico. In verità mi annoio facilmente ed è impossibile ripetermi, ho bisogno di cambiare.

Abbiamo anche in ballo un progetto molto bello e originale per l’anno prossimo con Francesca Sacchi Tommasi dello studio Etra insieme ad altri scultori, ma per il momento non posso dire altro.

Cosa sono queste carte appese lungo il muro che affianca la scala?

Sono lettere, scambi di auguri, fotografie, ritagli di giornale di avvenimenti, ricordi di persone che ho incontrato alle quale tengo in modo particolare. Stanno qui con me e mi tengono compagnia. Ricordi dei tempi in cui i galleristi e gli storici dell’arte erano presenti fisicamente nello sviluppo creativo e venivano in studio, toccavano le opere se ne discuteva in loco vis-à-vis. Oggi spedisci foto con WeTransfer e vai, tutti capiscono tutto.

Qui ci sono le lettere di Mario De Micheli, di Federico Zeri che si scusava perché, malato, non riusciva a scrivere la presentazione per la mostra a San Sepolcro Omaggio a Piero. Ed era Federico Zeri, ogni commento e paragone con i più o meno blasonati o giovani rampanti contemporanei è superfluo. Con rammarico devo ammettere di essere circondato da molti critici che non conoscono assolutamente il mestiere dello scultore ortodosso. Non hanno mai messo piede in una fonderia, assolutamente al buio della “magia e mistero” della fusione a cera persa, mai visto un laboratorio di marmo o uno studio da modellatore come il mio così può succedere che parlando di te con riferimenti “alti” per segnare la propria cultura, scrivano «lo scultore con lo scalpello…» senza assolutamente sapere che io modello con le mani, con le unghie.

Intervista a cura di Mercedes Viola

(L’intervista in loco è stata realizzata prima dell’emergenza Covid-19)

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