Quelle che seguono sono voci o, come anche si dice, lemmi di un dizionario del tutto particolare, di prossima pubblicazione: un dizionario di “parole private”, di parole rare, preziose e per lo più voluttuose tratte dal libro della memoria di un linguista come Federico Roncoroni, autore, tra le altre cose, della grammatica italiana più venduta nel mondo: un’opera in cui il fascino dei ricordi si mescola con il gusto della ricerca etimologica e con la ricostruzione, attraverso le parole, di un originalissimo modo di guardare la realtà. Federico Roncoroni, amico e collaboratore di Piero Chiara, autore proprio con Chiara della monumentale e per nulla agiografica biografia su Gabriele D’Annunzio (Mondadori) ha deciso di regalare a Satisfiction un’anticipazione di questo suo “Dizionario”. Un “Dizionario” che farà discutere come è stato per “Il grande libro degli aforismi” che Roncoroni curò nel 1987 per Mondadori, contribuendo alla riscoperta e alla moda degli aforismi e a tutt’oggi giunta alla 17esima edizione. L’omaggio di un grande italianista, saggista e poeta ma non solo: Federico Roncoroni è tra gli ultimi veri uomini dell’editoria e dell’intellighenzia italiana. Tra gli studiosi più rigorosi ma anche tra gli uomini più leali e corretti in un mondo, come quello delle lettere, che alla coerenza ha sostituito le macchine tipografiche.
Gian Paolo Serino
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A quei tempi, spiego al mio amico Elastico, il vino si teneva dentro i cosiddetti crateri al centro del convivio. Non c’erano le bottiglie e i pistoni. Secondo la tradizione dorica era vietato bere durante i pasti, si cominciava a bere dopo: un coppiere, una specie di somellier greco, si prendeva carico della mescita. Poi si faceva tutti insieme un inno propiziatorio agli dèi, una cosa veloce, e si cominciava a girar subito delle giostre fino ad esaurimento cratere, e considerato che il vino è un dono di Dioniso chi si asteneva dall’assunzione della bevanda automaticamente faceva un dispetto a lui, e eran cazzi a quei tempi.
Quella volta, spiego al mio amico Elastico, il medico Erissimaco aveva consigliato di bere poco perchè gli invitati non avevano ancora smaltito il simposio del giorno prima. Bere poco: pensa te caro Elastico che la festa è finita con Alcibiade che cerca di sodomizzarsi Socrate, filosofo dilettante figlio dello scultore Sofronisco e della levatrice Fenarete. All’inizio della serata però tutti sembravano persone serie, diciamo normali, a parte Socrate che si era messo in faccia la maschera di sughero di Diotima di Mantinea, una sacerdotessa di Dioniso da cui lui, Socrate, aveva tratto insegnamenti sulla natura e l’essenza di eros. Così almeno racconta buonisticamente Platone, spiego a Elastico, ma chissà come erano andate le cose tra Socrate e Diotima, altro che filosofia. Lasciam stare.
Ad ogni modo nonostante l’esortazione di Erissimaco, gli amici pian piano avevano coricato il primo cratere, dedicandolo a Zeus, e avevano organizzato il dialogo in maniera che tutti dovevano fare a turno l’elogio di Eros, figlio del Caos e Afrodite.
Il primo che parla è un laureato fresco disoccupato che si chiama Fedro e mette insieme una pataccata retorica encomiastica a carattere mitico eroico dozzinale con esempi abbastanza facili, tipo Achille che si sacrifica per amore di Patroclo, o Alcesti che decide di morire al posto di suo marito Admeto, o l’esempio negativo di Orfeo che va a recuperare Euridice negli inferi ma poi la riperde perchè si gira a guardarla. Poi tocca a Pausania, un onorevole della maggioranza che fa un intervento un po’ di parte e dice che non c’è un solo Eros, ma due: il primo si chiama Pandemio e predica l’amore turpe e volgare, come quello tra un uomo e una donna tutto disgustosamente corpo e niente anima, prediletto dalle persone di poco intelletto, il secondo si chiama Uranio e invece predica l’amore sublime che non partecipa della natura femminile ma solo di quella maschile: è l’amore che lega il fanciullo all’uomo maturo e quindi, secondo Pausania, tende alla virtù. Poi viene il turno di Erissimaco, il medico che raccomandava di bere poco; Erissimaco è ancora un po’ provato dai crateri coricati la sera prima e quindi è poco speculativo, come del resto tutti i medici, anche quelli astemi: dice sinteticamente che è d’accordo con Pausania che solo l’Eros Titanio è quello che conduce alla felicità e all’armonia fra corpo e anima, l’altro, cioè l’Eros Pandemio, porta solo il disordine; e per metterci un po’ del suo dice che l’amore buono è come la medicina e l’amore cattivo come la malattia e che non bisogna trascurare l’amore per gli animali, per le piante eccetera. Fin qui il dialogo platonico, caro il mio Elastico, diciamolo pure senza peli sulla lingua è un bel fiaccamento.
Intanto che spiegavo il simposio ad Elastico ho avuto un lampo visionario demoniaco e vedevo in filigrana la sagoma sgraziata del cameriere Aride che rideva da stronzo impostore chiedendo scusa paternalisticamente agli altri tavoli, chissà chi credeva di essere per parlare così da divo del cinema; anche Salami rideva e mi pare anche Zani e Ferri. Cosa c’era poi da ridere.
Per fortuna, dico a Elastico, viene il turno di Aristofane che mette bene a frutto il dono di Dioniso con una storia interessantissima. All’origine, dice, c’erano tre sessi: maschile, femminile e androgino. Avevano tutti quattro braccia, quattro gambe, due teste, due apparati riproduttori: gli androgeni avevano contemporaneamente un apparato riproduttore maschile e un apparato riproduttore femminile, gli altri avevano un doppio apparato riproduttore omogeneo. Be’, siccome questi esseri erano forti e potenti come giganti e mettevano a rischio la stessa potenza degli dei, Zeus, che era il premier degli dei, temendo il colpo di stato o anche solo qualche incrinatura nella maggioranza ha fatto approvare una legge e li ha fatti tagliare a metà da Apollo: da quel momento ciascuna metà cerca l’altra: i maschi e le femmine che prima erano doppi maschi e doppie femmine e rappresentavano i 2/3 della popolazione, cercano la loro metà attraverso l’amore omosessuale, gli altri, che derivano dall’androgino cioè di quell’essere che aveva tutti e due gli apparati riproduttori e rappresentava la minoranza, cercano l’anima gemella attraverso l’amore eterosessuale, che per l’onorevole Pausania e il disoccupato Fedro è turpe e volgare. Aristofane non prende posizione politica su quale dei due amori è meglio, ma a leggere le sue commedie, caro Elastico, secondo me lui preferisce quello eterosessuale. Ad esempio criticava sempre poeta tragico Euripide perché nelle sue tragedie le donne ci fan sempre brutta figura; e nella commedia Lisistrata Aristofane racconta la storia delle donne ateniesi che fanno lo sciopero del piollare in modo che i mariti si convincano a mettere fine alla guerra del Peloponneso.Tutti elementi secondo me abbastanza sintomatici di una tendenza.
Ha spezzato un’altra volta il racconto una visione di Blake con Elastico che ride e mi riempie il bicchiere, io bevo, che ho la gola secca con tutto quel parlare di filosofia, intanto che Aride dice frasi avventate come: portatelo a casa sua quel deficiente, ma secondo me per fortuna nessuno gli dà conto. Va’ avanti Bisi, mi fa Elastico, non smettere. Così,
dopo aver ritrovato con l’aiuto di Elastico il filo del ragionamento interrotto da quel cane di Aride, ho ricominciato.
Parla il poeta Agatone, il padrone di casa, che ripropone il registro encomiastico con modalità liriche e ditirambiche. Dice che Eros è il più felice degli dei perché è bellissimo, bravissimo, giovanissimo, leggiadro e educato, e poi è portatore di grandi virtù come la temperanza, la giustizia e la sapienza, ed essendo buonissimo non si tiene per sé queste virtù ma le regala agli uomini, e così diventa anche generosissimo.
Dopo un discorso estetico ditirambico così, confido a Elastico, secondo me Eros sta sui coglioni a tutti. Elastico è scoppiato a ridere sputando a pioggia il vino sulla tovaglia e tutti e due ci siam fatti delle matte risate.
Arriva finalmente il turno di Socrate, carico come un boiler, che parlando in falsetto impastato con in faccia la maschera di sughero della sacerdotessa Diotima dice: ragazzi, vi invito ad essere seri: se vogliamo fare l’elogio di Eros dobbiamo dire la verità, mica raccontarcela, e qui si volta con cipiglio etilico accusatore verso Aristofane che aveva inventato quella loccata dei tre sessi dimezzati, e anche verso Agatone che aveva sperticato da dilettante: cioè, dice Socrate, qui non facciamo della retorica, neanche dell’estetica, facciam della dialettica. Poi comincia: l’amore è il desiderio del bello e del buono, ma è un desiderio che nasce da una mancanza. Infatti se Eros cerca il bello e il buono significa che Eros non è né l’uno né l’altro. E qui Socrate guarda Agatone come per dire: vedi un po’ la prossima volta di collegare il cervello prima di parlare. Non si può, va avanti Socrate dopo aver alzato un attimo la maschera per assumere ancora il dono di Dioniso, non si può desiderare qualcosa che si ha già. D’altra parte Eros, che non è mica un bigolo, sa cos’è il bello e il buono, altrimenti non lo cercherebbe, perchè non si può desiderare qualcosa che non si conosce. Quindi in sostanza Eros partecipa della natura del bello e del buono pur non avendo né l’uno né l’altro. Conclusione, dice Socrate: Eros è un filosofo perché si trova a metà tra ignoranza e conoscenza.
Insomma, dico a Elastico mentre mi riempie ancora il bicchiere, per essere espliciti: Amore è filosofia, e quindi la conoscenza è eros. Tieni presente però, dico a Elastico, che arrivati alla fine del discorso di Socrate era già stato coricato il secondo cratere e tutti erano molto appannati. Poi, come ti ho detto all’inizio, arriva Alcibiade che la caricata l’ha già presa per conto suo, e anche bella pesante. Be’, Alcibiade entra nel simposio e comincia a dire frasi senza costrutto e ride e piange: comportamento tipico dell’ubriachezza che colpisce i soggetti emotivamente instabili, perché l’alcol esaspera i difetti della personalità, poi si mette a inghirlandare Agatone, cioè il padrone di casa; ma quando si accorge che c’è anche Socrate, che subito non aveva riconosciuto per via della maschera, comincia a inghirlandare anche lui e dice: adesso mandiamo a casa il coppiere e beviamo tutti insieme come delle oche direttamente dal cratere. E siccome la situazione sta precipitando interviene Erissimaco: ascolta Alcibiade, dice, tu non puoi arrivare qui di punto in bianco insomentito di sostanze vinose e pretendere che si faccia quel che decidi tu, primo perchè siam già tutti abbastanza confusi che quel cratere che vedi lì l’abbiam già girato due volte, secondo stavamo facendo a turno l’elogio di Eros, quindi i casi sono due o stai qui e allora fai anche te l’elogio di Eros come tutti gli altri, altrimenti prendi su la porta. Ma quale elogio di Eros, scoppia a ridere Alcibiade, è Socrate che merita la gara degli elogi, mica Eros. Tra parentesi Alcibiade e Socrate han fatto insieme il militare nella guerra del Peloponneso e infatti, proprio nel ricordare le imprese eroiche di Socrate nel Peloponneso, Alcibiade ricomincia a piangere, poi dice che Socrate è come il satiro Marsia che incanta con le sue melodie, poi si tappa le orecchie con le mani perché dice che le parole di Socrate sono come il canto delle sirene e lui non le vuol sentire, che è una cosa senza senso considerato che Socrate è lì zitto in un angolo da mezz’ora, l’unico a parlare è lui, Alcibiade, che a un certo punto scoppia anche a ridere come un asino e dice che Socrate malgrado sia il suo maestro non ha mai provato a sedurlo, come si fa di solito nelle accademie, e questo da un lato, dice Alcibiade, è motivo di encomio, dall’altro un po’ gli dispiace, gli avrebbe fatto piacere che Socrate rimanesse soggiogato dalla sua bellezza, e comunque se Socrate decidesse un domani di sedurlo lui è sempre lì, disponibile, non scappa mica via, a farsi trasmettere da Socrate la saggezza attraverso l’amplesso; perché, spiega Alcibiade, per capire i discorsi di Socrate non basta ascoltare, bisogna compenetrarli.
Durante l’ultima parte del discorso, spiego a Elastico, gli altri convitati, galvanizzati dall’euforia di Alcibiade, si son rimessi a bere come delle canale, ridere, piangere, rincorrersi, ghermirsi a vicenda, e a un certo punto, in tutto questo regò con Socrate istupidito in un angolo con ancora in faccia la maschera di sughero di Diotima di Mantinea, irrompe un altro gruppo di ubriachi, più ubriachi di tutti, che fanno riti dionisiaci e tutto quello che si può immaginare in un contesto dorico etilico. Così finisce il dialogo platonico.
Mentre raccontavo queste cose a Elastico, diciamo nell’ultima parte del racconto, non so perché Elastico non c’era più e mi trovavo coricato sul sedile dietro della derby di Salami che guidava piano e ogni tanto mi faceva l’intercalare: si si Bisi, mi diceva, hai ragione, ma adesso stai bel calmino che arriviamo a casa e vai a letto. Dov’è il mio amico Elastico? Ho chiesto. E’ andato a dormire, adesso andiam tutti a dormire. E intanto mi frugava nella tasca e poi girava la chiave della serratura, che il tempo scorre irreparabilmente e io ero già arrivato.
Calamari
(sostantivo maschile plurale)
Occhiaie. Cerchioni sotto gli occhi. Avere giù i calamari significa quindi avere le occhiaie.
Per stanchezza, strapazzo, tristezza, languore, cattiva salute, veglie protratte. Ma soprattutto, secondo la zia Jolanda e la zia Maria Mercedes, per eccesso di attività manuali, solitarie o reciproche, nelle parti basse, causa appunto a loro dire, in rapida successione, di calamari, tisi, cecità e morte. Sia per i maschietti sia per le femminucce. E anche per le vecchie zie zitelle:: a giudicare dal modo in cui censuravano seghe e ditalini le due dovevano avere una gran pratica di cose siffatte.
Per lungo tempo, da bambino, ho creduto che i calamari in questione avessero a che fare con i calamari o i calamaretti intesi come molluschi. Non so come mi sia venuta una simile idea, ma se ci penso, immagino che sia nata dal fatto che sull’Enciclopedia illustrata del babbo avevo visto un disegno in cui i calamari erano raffigurati con dei grandi occhi scuri un po’ tristi e un po’ spenti. Solo quando vidi, su un’Enciclopedia del mare, in biblioteca, un disegno nel quale era raffigurato un calamaro che, assalito da un pesce più grosso, credo uno squalo, si sottraeva al pericolo emettendo un liquido nerastro che intorbidava l’acqua, mi resi conto che i calamari che cerchiano gli occhi e i calamari che vivono nel mare dovevano essere legati, come nomi, proprio e soltanto dal colore nerastro che in modo diverso, li caratterizza entrambi: il nero delle occhiaie e il nero del liquido emesso dal calamaro. Quindi, pensai, le occhiaie sono dette calamari perché sono nere come l’inchiostro dei calamai e i calamari marini sono così chiamati perché emettono un liquido nero come l’inchiostro dei calamai. Avevo ragione, ma i calamai perché si chiamano calamai? Le mie capacità induttive e deduttive erano ancora alquanto scarse. Perciò, per risolvere il problema, dovetti ricorrere al dizionario, dal quale appresi che “calamaio” deriva da calamus, ‘cannuccia’ poi ‘cannuccia per scrivere’ ( o “calamo” come ancora si dice nelle parole crociate e nei rebus) e poi ‘penna’ e che si chiama così perché era l’oggetto in cui si raccoglievano le penne, poi quello in cui, quando era pieno di inchiostro, le penne si intingevano e infine semplicemente l’oggetto che conteneva l’inchiostro, la nera sostanza che ha il medesimo colore di quella emessa dal calamaro in fuga e delle occhiaie di quante e quanti, secondo le mie zie, i preti e i maligni. eccedono compulsivamente al fine di darsi piacere, nell’impudica operazione di smanettamento che viola il quinto comandamento.
F. Callipìgia
(aggettivo e sostantivo femminile)
Dalle belle natiche, cioè dal bel culo. E’ attributo proprio di Venere, ma si addice benissimo anche alla nostra amica Paola che, a parer nostro, ha il più bel culo del mondo. Un culo sodo, compatto ed elastico, che sta su da solo. Un culo che sboccia sulle cosce e sfuma nelle curve dei fianchi, alludendo alla delicata curva del seno che si intravede di scorcio. Un culo che sodo ed elastico rimane anche quando la proprietaria è sdraiata a pancia in sotto, come spesso la Paoletta o languidamente appoggiata su un fianco, come la Venere di Velázquez o addirittura ci sta seduta sopra, come la donna di Renoir. Un culo di misura giusta, non certo quello maestoso delle donne di Rubens ma neanche il culo secco delle eterne adolescenti. Il culo di Roberta, per intenderci, sia essa Rosa Fumetto o Michelle Hunziker o quello di Carla Bruni, che ce l’ha, sa come è e non fa niente per nasconderlo. Quello che fa tutt’uno con il resto del corpo senza prevalere sul resto, ma anche facendosi notare. Quello che per strada è giocoforza voltarsi a guardare, quando dal davanti della bella portatrice si intuisce che il didietro non può non essere altrettanto degno.
Filippa
(sostantivo femminile)
“Tira tutti ‘sta filippa, / bella vergine maiala. / Orsù scendi le mutande, / che oramai s’è fatto tardi”, cantava in una memorabile tenzone goliardica un coro maschile. E un coro femminile sostenuto in falsetto da un virilissimo tipaccio, ribatteva: “Ce l’ho qui tra le mie chiappe, / bella calda e riccioletta, / ma la tengo stretta stretta. / Non l’è trippa ‘sta filippa, / non l’è trippa per i cazzi …”. Licenze d’altri tempi, ignari di ideologie, spinelli e manganelli, certo. Ma certo è anche che, tra i tanti nomi propri femminili usati per indicare “il bel buco che ci ha fatti / per il qual andiamo [quasi tutti] matti”, “filippa” -”la filippa”- è il più espressivo e sonante. Gli tiene testa solo “bernarda”.
Frignare
(verbo)
Piagnucolare per capriccio, stizza, lieve dolore o anche per niente. Detto soprattutto in
riferimento ai bambini o di coloro che a bambini si atteggiano. Scrive infatti, sub voce, cioè alla voce frignare del suo Dizionario della lingua italiana, Niccolò Tommaseo: “Frignare. Piangere pian pianino e ficosamente [‘in modo noioso e stucchevole’], a mo’ de’ bambini leziosi o che fanno l’uggia. Si dice in modo dispregiativo d’un ragazzo stizzoso”. Una volta sì che le sapevano scrivere le definizioni dei dizionari.
Quando ero piccolo frignare era una cosa assolutamente da evitare in casa e fuori: venire accusato di essere un frignone era un insulto tremendo, sia che venisse dal babbo, dalla mamma o da una sorella sia, peggio che peggio, fosse proferito, tra risate e sberleffi, da qualche bambino, in cortile o a scuola. In proposito, i consigli del babbo, erano precisi: piangere il meno possibile, perché tanto nessuno si commuove, e poi non bisogna dare a nessuno la soddisfazione di vederti piangere; frignare mai. L’origine di sì tristo verbo e dei suoi derivati “frigna”, “frignìo” e “frigno” (piagnucolìo), “frignisteo” (‘piagnisteo’)? Sono voci onomatopeiche, parole che mediante le lettere che trascrivono i suoni di cui sono composte riproducono il rumore che fa ciò che indicano, nel caso specifico, il rumore di chi piange sommessamente. Come “frinire”, che è forma molto vicino a “frignare”; come “miagolare”, “abbaiare” e “ululare”.
Gridellìno
(aggettivo)
Di colore viola pallido o grigio-rosa. Più precisamente del colore grigio del lino, gris de lin, come suona la locuzione francese da cui l’aggettivo deriva. Il colore dei prati della Provenza e dell’entroterra ligure, spaziante dall’azzurro al grigio al rosa al turchino al lilla. Il colore dei giacinti selvatici. Degli intonaci delle stanze delle ville abbandonate dell’Ottocento. Dei cieli di Matisse. Un aggettivo di un cromatismo tra il visivo e il sonoro. Visivamente tenue quanto musicalmente sonoro. Teneramente sensuale. Non a caso piacque a Gabriele d’Annunzio, che lo usa spesso sia in prosa sia in poesia. Nell’Alcyone un “fiore gridellino” gli pare un indizio della fine dell’estate e dell’approssimarsi dell’autunno: “Ahimè, fiore travidi gridellino…”.
Manomorta
(sostantivo femminile)
«Lo scorrere di mani maschili su corpi femminili, fingendo di nulla, dove la folla è fitta». Così, semplicemente e chiaramente, Alfredo Panzini definisce nel suo Dizionario un gesto -un sopruso- di cui le mie sorelle, le mie compagne e le mie amiche, quale più e quale meno. sono state più volte vittime, in treno, in bus, in metro, in aereo, al supermercato, a Como, a Milano, a Roma, a Napoli, a Palermo, a Parigi, a Londra, a New York, a Hong Kong: dappertutto. Non meno icastica, anzi un po’ più osée, la spiegazione del Battaglia, nel Grande Dizionario della lingua italiana, nella locuzione “fare la mano morta”: «Tenerla incerta per sfiorare o palpare le rotondità di donne dando a intendere di non averlo fatto intenzionalmente».
Moribilitá
(sostantivo femminile)
La condizione di chi può morire e che è destinato a morire, perché è un essere umano
e di conseguenza non è eterno: la triste condizione di chi, come l’uomo, non può mai concepire troppo vasti progetti, ma anche la condizione privilegiata di chi, come l’uomo, è consapevole che nulla che lo riguarda può durare più di tanto e da questa consapevolezza trae la forza per osare grandi cose. La parola è bella, ma non esiste. O, meglio, non esisteva fino al 2001, quando l’ha inventata -data alla luce- Patrizia Valduga, che in una sua quartina si dice sola, «sola con la sua moribilità» e aggiunge: «se esistesse questa».