L’ambientazione è perfetta. A parlarci della sua esperienza come docente di drammaturgia alla scuola Paolo Grassi, per il Festival della Letteratura di Milano, invitiamo Aldo Nove al circolo arci Bellezza nella storica palestra di boxe che Luchino Visconti scelse per girare “Rocco e i suoi fratelli”. Da qualche anno la Paolo Grassi affida a un autore di prosa il terzo anno del corso di scrittura teatrale, istituito tra gli anni ’70 e ’80 – prima che sorgessero le tante scuole di scrittura creativa di imitazione anglosassone, ci tiene a sottolineare Renato Gabrielli, drammaturgo e coordinatore del corso di drammaturgia – di fianco ai corsi tradizionali di regia, recitazione, organizzazione e teatro danza. E proprio la metafora della palestra viene in mente ad Aldo Nove per descrivere il suo lavoro con gli allievi dell’anno quasi concluso. Ci spiega che, nell’intervenire sul lavoro di un aspirante drammaturgo, l’equilibrio tra la necessità di indirizzare la sua scrittura e, al contempo, di garantire un’adeguata libertà di creazione si trova nell’esercizio di una pratica linguistica finalizzata ad abbandonare l’ego del romanziere e del poeta, per abituarsi al confronto. Nel teatro non c’è scrittura solitaria ma un meccanismo corale in cui le competenze e la sensibilità dell’autore, al momento della messa in scena, s’intrecciano necessariamente con quelle di altri artisti. E’ l’unicità del teatro: partire dalla scrittura per arrivare a un testo tridimensionale, aperto, malleabile.
Il progetto di formazione ideato da Aldo Nove, con il regista Michele de Vita Conti, si completerà con uno spettacolo degli allievi, ancora in fase di lavorazione, il cui titolo prende spunto dalla pièce di Thornton Wilder “Our Town”, vincitrice del Pulitzer nel 1938. Con il concetto di città, intesa anche e soprattutto come comunità, Aldo Nove e Michele de Vita Conti hanno voluto stimolare gli studenti a individuare che cosa sia una comunità nell’era della globalizzazione e a raccontarne le dinamiche interne attraverso degli spaccati di vita contemporanea. L’obiettivo è raccontare il tempo presente. Ai suoi allievi, Aldo Nove ama ripetere la definizione di Ezra Pound “il classico è il nuovo che resta nuovo” perché capiscano che chi riesce a fotografare bene il presente crea un’opera destinata a durare nel tempo e a comunicare ben oltre la sua contingenza.
Il teatro è un luogo di ibridazione delle forme, ecco perché per il loro progetto Aldo Nove e Michele de Vita Conti hanno scelto di prendere spunto dai cartoni animati dei “Simpson” e dalla serie televisiva “Twin Peaks” in quanto espressioni di relazioni sociali all’interno di piccole comunità, con personaggi stereotipati ma in grado di rappresentare delle tipologie umane attuali. Ma è anche un luogo d’incontro che permette di rendere pubbliche le esperienze private e riconoscere, nella narrazione del quotidiano, i cambiamenti della società. Occorre dar voce alla comunità che forse non sappiamo esistere ma che c’è e tornare, se necessario, allo spirito originario del teatro classico come unione e scambio tra drammaturgo, attore e spettatore. Un esempio concreto è la messa in scena di “Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese”, il reportage di Aldo Nove sul mondo del precariato che da otto anni continua a essere rappresentato, attraverso molteplici riscritture che hanno permesso di allargare i confini del testo a esperienze più recenti e di sollecitare anche un’interazione con il pubblico – “chi di voi è precario?” viene chiesto alla platea a un certo punto della messa in scena di Renzo Martinelli e Federica Fracassi. Un esperimento interessante anche dal punto di vista delle fasi di realizzazione – come ci fa notare Paolo Giorgio, moderatore dell’incontro, drammaturgo, regista e docente alla Paolo Grassi – nel quale si è partiti da un resoconto orale trasformato, poi, in linguaggio scenico passando per il filtro e la cristallizzazione della struttura letteraria.
Da una parte, dunque, si chiede agli allievi di dare espressione a un microcosmo e, dall’altra, di sperimentare nuove forme. Il teatro, afferma Aldo Nove, deve approfittare della sua marginalità rispetto al cinema e alla televisione e sfruttare la sua specificità di evento unico, ripetibile ma legato a un luogo, un momento e una presenza insostituibili che diventano esperienza. Spetta a chi fa ricerca dare linfa al teatro creando dei linguaggi nuovi: ora più che mai vitali perché in Italia sono rari i contributi innovativi al genere commedia e per questioni economiche, soprattutto nei teatri stabili, siamo sommersi da spettacoli che non hanno altra peculiarità se non la notorietà di certe figure mediatiche.
Terminiamo l’incontro parlando dell’ultimo libro di Aldo Nove “Mi chiamo…”, il monologo immaginario dell’ultima notte di vita di Mia Martini, del quale è già in programma un adattamento teatrale. Non descrive la figura della grande cantante, Aldo Nove, ma è piuttosto interessato a ricostruirne il profilo umano. Il romanzo è nato dalle sue conversazioni con persone vicine a Mia Martini, come Gianna Bigazzi, Caterina Caselli e Giuseppe Berté, da cui deriva una narrazione in prima persona ma dialogante e polifonica. Aldo Nove osserva come questo lavoro sia il frutto di un “continuo passaggio di storie” attraverso voci, scrittura e rappresentazione. Ma, alla nostra lettura, non sfugge la sensibilità del poeta nel tratteggiare personaggi femminili dal fascino inquieto.
In attesa del calendario per la rappresentazione di fine corso alla Paolo Grassi, annotiamo la data dell’“Ultima notte mia”, il 9 luglio, al teatro ex Paolo Pini con la regia di Michele de Vita Conti e l’interpretazione di Erika Urban.
Lisa Topi