Che cosa hanno in comune un tunisino che, sognando di danza e letteratura, sbarca in Italia costretto a farsi largo tra un mare di morti, e una ragazza veneta di famiglia benestante, abulica, autolesionista e spigolosa? La sensazione di uno stato di prigionia, un desiderio di libertà senza sbocchi nel seguitare una muraglia… Al festival della letteratura di Milano Marco Rovelli ci parla del suo libro, La parte del fuoco (Barbès).
La Parte del fuoco è narrata quasi interamente in seconda persona. Non è il “tu” rivolto al lettore, per esempio, di Se una notte d’inverno un viaggiatore, ma il protagonista. Perché una forma così difficile da sostenere? Per marcare una distanza tra l’autore e il suo personaggio? Accrescere l’empatia nei suoi confronti, indicandolo come primo destinatario del racconto? O semplicemente una questione di stile?
Paradossalmente sono tutte e tre le cose. Si trattava di marcare una distanza nei confronti del lettore, che è un lettore italiano. A lui volevo mostrare che quella non era la sua vita ma, allo stesso tempo, invitarlo a entrarci, a sperimentare quella distanza e a indossare quei panni o quelle scarpe, come dicono gli inglesi. Ma forse anche perché – questa è una spiegazione che mi sono dato strada facendo, nel tentativo d’interrogare e razionalizzare la scrittura, per capire se stessi seguendo la direzione giusta – questo “tu” faceva già parte dei miei libri. Ogni volta che ho ascoltato le storie delle persone che ho incontrato in giro per l’Italia, è stato un tu per tu, un porsi all’altezza degli occhi (nel mio primo libro, all’altezza degli occhi era la sezione in cui descrivevo le vite di quelle persone). In qualche modo, mi viene naturale dare del “tu” quando scrivo e, conservare il “tu”, significa conservare quella verità, necessaria per raccontare una storia.
L’incontro tra i due protagonisti, Elsa e Karim, dà vita a un triangolo, nel quale i personaggi sono colpiti da un’inspiegabile incapacità di comunicare che li fa assomigliare ai borghesi dell’Angelo sterminatore di Buñuel, prigionieri di una casa dalla porta aperta. Questo ripiegamento verso l’interno è il movimento che contraddistingue anche la vita intima dei personaggi, penso a Elsa, alla sua pelle di vetro serrata a pugno, o a Karim che per fuggire dal centro di espulsione non trova altro modo che ritorcersi sul proprio corpo, lacerandosi. Ed è come se anche la trama si snodasse in una sorta di cul de sac. Vorrei che tu ci parlassi di questa relazione tra il corpo e la mancata apertura dei personaggi verso il loro contesto sociale.
Effettivamente, La parte del fuoco è prima di tutto un libro sui corpi. O quantomeno ci sono tre direttrici universali nel romanzo: il corpo, la fuga, l’amore. Nonostante io racconti due storie inserite in un contesto ben preciso, infatti, volevo parlare di un elemento universale. Raccontare il rapporto fondamentale che ognuno di noi ha con il proprio corpo. Quando non hai più nessuna risorsa nella vita, l’unica cosa che ti resta è il tuo corpo e dunque i segni che hai da esprimere non puoi che inciderli sulla sua superficie. Quando il mondo alza un muro e non c’è nessun “tu”, il “tu” diventi tu stesso e questo innesca un circolo vizioso in cui si è costretti a scaricare su di se ciò che non si riesce a dire al mondo. Ecco perché l’autolesionismo mi è sembrato un aspetto importante a livello d’intuizione e di sentimento, prima ancora che a livello intellettuale, pur essendo un’esperienza estrema. Forse perché, come insegna Todorov, nelle esperienze estreme c’è sempre una verità profonda, assoluta. La prigione di Elsa, quella mentale, evidentemente è molto più serrata rispetto a quella di Karim, che è una prigione fisica, per cui uscirne è molto più difficile. Non basta scavalcare un cancello, posto che sia solo un cancello ciò che blocca Karim! Nei centri che ho visitato, mi è capitato di ascoltare tantissime storie di migranti autolesionisti e poi, per altre vie, ho conosciuto persone anoressiche e autolesioniste che mi hanno raccontato le loro storie, ma queste sono arrivate senza che le cercassi. Mi ha colpito la consonanza tra mondi completamente differenti che s’incontrano nella stessa pratica – anche se è la stessa solo da un certo punto di vista, perché poi viene significata in due contesti diversi. Volevo capire il perché di questa condivisione: forse conteneva un’universalità propria dell’umano, e soprattutto dell’umano in fuga.
Le persone nel tuo romanzo danno spesso una risposta fisica agli eventi e, a mio avviso, anche la lettura provoca un coinvolgimento corporeo, facendo aderire il respiro del lettore al rallentamento o alla concitazione della scrittura. Sarà, forse, effetto della tua capacità di modellare il ritmo e la musicalità del testo o, a un livello più ampio, dei richiami semantici all’invasività degli elementi, dell’acqua e dell’aria.
Non saprei. E’ certo che mi viene istintivo sentire il ritmo in ogni cosa che scrivo. Non perché sono musicista ma, anzi, forse l’essere musicista non è che una conseguenza di questo. Il ritmo poi è una questione di respiro e il respiro, ancora una volta, è il nostro modo di comunicare con l’esterno, profondo e superficiale allo stesso tempo. Un po’ come la pelle.
Che cos’è nel tuo romanzo il grado zero?
Il grado zero è l’assenza di significazione. In realtà, si tratta di una condizione impossibile perché, anche quando non lo vogliamo, siamo sempre significati. E’ un desiderio impotente, come la ribellione di Elsa che vorrebbe creare un silenzio, neutralizzare qualcosa che non è un vuoto neutro, ma è un troppo. Il grado zero della vita di una come Elsa è una sconfitta a priori perché nel voler aderire alla carne e non essere altro che corpo – il che è l’inizio della saggezza – si scontra con un eccesso del corpo, con l’incapacità di gestire se stessi e le proprie relazioni con il mondo. Si è incapaci di significare l’esistenza, ci si lascia sopraffare dalla passività e anziché venire a patti con la vita, la si subisce.
I tuoi personaggi sono solitari e tormentati, tanto che immaginiamo le loro facce incrinarsi e scricchiolare come la creta. E ci sono momenti in cui la durezza della loro condizione è mitigata da alcune immagini di bellezza, ma sempre ambigua. Come l’incontro dei protagonisti con la signora del bosco, dai toni azzurri e i gesti lievi che contrastano con la sua figura funerea. E’ un esempio di consolazione poetica o il segno che nessuna bellezza è incontaminata?
In realtà la signora del bosco, che può sembrare un personaggio di finzione, s’ispira a persone che ho incontrato e che, per me, rappresentano una forma di bellezza reale. Sono persone che, nella loro semplicità estrema, hanno attraversato mondi, si sono fatte attraversare dai mondi, hanno fatto la guerra partigiana e hanno trovato, in qualche modo, l’aderenza a se stessi, anche nel lutto. Ridurle a consolazione sarebbe sminuente perché è un concetto letterario mentre, nel caso della signora del bosco, si tratta di una realtà che si fa viva: lí non c’è proprio niente da consolare, c’è pura aderenza alla vita, gioia.
Karim è un intellettuale, con una visione del mondo più complessa della maggior parte degli altri personaggi. Anziché rappresentarli come una comunità omogenea, tu poni l’accento sui conflitti e le differenze tra coloro che indistintamente si tendono a definire come “gli immigrati”. Riconoscere un’identità singolare, prima che collettiva, è un modo per superare le percezioni sommarie e strumentali della realtà?
Questa è una costante di tutto quello che ho scritto: restituire il nome, i gesti, il volto a persone che sono negate nella loro esistenza. Credo fermamente che da qui si debba cominciare.
Che cosa pensi delle parole “clandestino” e “morti bianche”?
Penso che il linguaggio modifichi il mondo. “Clandestino” e “morti bianche” sono due modalità di manipolazione, ma molto diverse. “Morti bianche” è davvero una manipolazione profonda: negli anni ‘50 l’Unità inventò il sintagma “omicidio bianco”, per dire che la morte sul lavoro non è altro che un omicidio, di cui non viene mai indicato un colpevole; ma poi, subdolamente, la stampa “borghese” ha fatto sì che questa espressione diventasse “morte bianca”, che ha ben altra connotazione, come l’assenza di responsabilità e l’ineluttabilità della tragedia. “Clandestino” è analogo a “morti bianche” perché indica qualcosa di nascosto, che fa paura. Io però uso la parola “clandestino”, diversamente da “morti bianche”, perché credo che possa essere assunta come rivendicazione di un’esistenza e dei diritti connessi a quell’esistenza. Un po’ come fecero i sanculotti nella rivoluzione francese, rovesciare una parola dispregiativa per designare l’assenza di diritti. Gli stessi clandestini si definiscono tali quando raccontano la difficoltà della loro condizione, mentre non ho mai sentito un familiare di chi è morto sul lavoro utilizzare l’espressione “morte bianca”. Del resto scegliere definizioni come “irregolari” o “sans-papiers” mi sembrava una forma di politically correct imposto dall’esterno.
I temi dell’immigrazione, lo sfruttamento e la morte sul lavoro sono molto presenti nei tuoi libri, in cui confluiscono generi diversi: il reportage, il romanzo, la saggistica e anche la poesia. Nella caratterizzazione dei personaggi de La Parte del Fuoco, che è marcatamente narrativa, ti sei servito della tua esperienza “sul campo”?
Il personaggio di Karim non corrisponde a nessuno che io abbia conosciuto, l’ho immaginato in maniera del tutto finzionale, anche se tutto ciò che gli accade è verosimile perché è frutto delle centinaia di racconti che ho ascoltato. Per Elsa, invece, all’inizio avevo in mente almeno due referenti reali, i cui tratti, ovviamente, si sono trasformati nella costruzione del personaggio.
La Parte del Fuoco è anche una storia d’amore?
Certo. E’ anche una storia d’amore, che ritrae la complessità, la mancanza di confini e le dialettiche tipiche di una storia d’amore. Non è l’amore tra Karim e Elsa, ma tra il protagonista e Nevia, un personaggio che rimane nelle retrovie ma ha un ruolo di snodo fondamentale. Mi è stato fatto notare che si sarebbe potuto dare a Nevia uno spazio maggiore, ma se non l’ho fatto è perché Nevia nel romanzo è l’amore e l’amore necessariamente si sottrae. Come diceva Etty Hillesum, amore è lasciar essere per cui chi ama non forza l’altro ma lo lascia essere ciò che è, consegnandosi al normale fluire delle cose. Così è per la storia di Karim che racconta, dopo la fuga da una chiusura, la possibilità di una “dischiusura”, che non coincide necessariamente con il lieto fine.
Lisa Topi