Parrà strano al lettore, così come lo è stato per me, apprendere dallo Shakespeare Lexicon, – che dal 1902 racchiude in due volumi tutto il vocabolario tratto dai testi teatrali e dai versi attribuiti allo scrittore di Stratford-upon-Avon – l’evenienza della parola abisso (abysm). Ci si aspetterebbero numerose apparizioni di quell’antro oscuro che tutto divora poiché cos’altro ci si astetta di trovare nel più rappresentativo degli autori elisabettiani? Accade invece che compiuta la ricognizione, in tutta l’opera di William Shakespeare (o di coloro che si nascondono dietro quel nome) l’abisso compare soltanto tre volte. Solo tre volte i personaggi di quelle opere volgono lo sguardo verso la profondità senza fondo, verso l’orrido più cupo e desolato, verso la voragine che tutto divora e consuma. Amleto non pronuncia mai questa parola – pare impossibile ma né il monologo, né la scena dei becchini preparano un giaciglio per quel termine; e neppure il finale dove accade che molti muoiano e raggiungano l’abisso contempla quel termine che mai vien nominato. Anche il rimorso di Macbeth e i maneggi di Lady sembrano evitare di citare lo sconfinato sprofondo che risponde al nome di abisso.
Ma quella parola non accade (intendo proprio nella sua accezione heideggeriana di accadere), nonostante il mediocre usurpatore cominci il suo clownesco monologo con la reiterata apparizione della parola to-morrow, che così scandita e ripetuta sembra imitare il procedere del tempo verso l’abisso della morte, perché così staccata TO e MORROW assume una doppia valenza: TO: Verso e MORROW: Mattino (ma anche MOURNING – lutto) e dunque, verso il mattino, verso il lutto, verso il mattino e il lutto. Poiché la reiterazione di Macbeth è in risposta all’annuncio della morte di Lady, – The Queen is dead – nulla vieta di far propria questa interpretazione. E se la direzione è quella che conduce al mattino, un mattino luttuoso, vuol dire che la tragedia di Macbeth si svolge tutta di notte ed è lì che Shakespeare scolpisce e scava la parola darkness in tutta la sua angosciante profondità. Colpa, rimorso, impotenza. E’ il dubbio che assale un re pusillanime ed è il colore che veste l’abito di una regina diabolica. E’ il sobillo delle parole di una donna perversa e la resa della volontà di un uomo debole. E’ il luogo oscuro da dove emergono i to morrow, to morrow, to morrow dell’usurpatore; è il futuro inconoscibile e aggressivo che si avvicina. Il muro oltre il quale non si può vedere e che può essere soltanto percorso. Non si fa esperienza di futuro che, così come il presente, è sempre e solo darkness, lo si aggredisce se non si vuole che ci aggredisca. Si tirano fendenti a casaccio, mentre si resta nell’oscurità, sperando di colpire il demone che è pronto a straziarci. Ovviamente, il demone saltella efficace, e schiva i colpi col sorriso sul volto. * E che dire dell’ambizione di Riccardo III? Pur essendo così vasta non ottiene il sigillo dell’immensità. Il suo è un sentimento che, alla fine, sembra contentarsi di un quadrupede. E poiché ormai pare certo che sia suo lo scheletro ritrovato sotto un parcheggio, quella riesumazione dice la tutto sommato scarsa vastità dei pensieri e delle ambizioni del monarca storpio: si contentò di due metri cubi sottoterra. Ma il progetto iniziale era assai più complesso, almeno come è enunciato nel monologo di apertura che si apre con l’abisso dell’oceano e chiude con una celebrazione dell’anima eraclitea che non ha confini. Dive, thoughs… Sprofondate pensieri, immergetevi e quel dive rimanda ai sub che hai visto nei porticcioli caricare le bombole sull’imbarcazione con scrisso sulla fiancata diving center. E’ sempre una costante oscillazione tra il presente e il passato.
E’ su quella distanza percorsa dal pendolo che si misura l’ampiezza della lingua di Shakespeare e del mio leggerla o ascoltarla. * Ma per quanto vertiginosi questi son tutti palliativi. Dive, deep of my soul, To morrow, sono fratelli altrettanto oscuri dell’abisso che compare per prima volta, forse nel sonetto 112, se lo si deve datare al 1598-1604.
Your love and pity doth the impression fill Which vulgar scandal stamp’d upon my brow; For what care I who calls me well or ill, So you o’er-green my bad, my good allow? You are my all the world, and I must strive To know my shames and praises from your tongue; None else to me, nor I to none alive, That my steel’d sense or changes right or wrong.In so profound abysm I throw all care Of others’ voices, that my adder’s sense To critic and to flatterer stopped are. Mark how with my neglect I do dispense: You are so strongly in my purpose bred That all the world besides methinks are dead.
Il tuo amore e la pietà annullano quel marchio che pubblico biasimo m’impresse sulla fronte, che importa se qualcuno mi loda o mi disprezza finché tu copri il male e dai credito al mio bene? Tu sei il mio intero mondo ed io devo cercare di capire onte e pregi solo dalle tue labbra: nessun altro per me esiste, né altri io considero, che cambi in bene o male la mia ferrea volontà. Nel più profondo abisso affondo ogni interesse per le voci altrui, affinché, come il serpente, non porga ascolto al critico né all’adulatore. Ecco perché trascuro il parere altrui: sei talmente radicato in ogni mio pensiero, che quanto ci circonda a me par morto. ….
La seconda apparizione dell’abisso shakespeariano è in Antonio e Cleopatra, altro testo tardo, dei primi del ‘600. Qui l’ambientazione è differente. Uno sciagurato messo di Ottaviano viene frustato dai servi di Antonio e Cleopatra e rispedito al mittente perché gli riferisca l’animo bellicoso di Antonio. Il monologo è un’invettiva prima rivolta all’infedele e e volubile Cleopatra poi a Ottaviano ‘egli mi fa montare in collera, e in questo momento è facilissimo farlo, quando le mie buone stelle che erano un tempo la mia guida hanno lasciate vuote le loro orbite lanciando I loro fuochi nell’abisso dell’inferno.’ Dunque si tratta dell’inferno, un luogo condiviso che non ha a che fare con gli interessi di Antonio, o le passioni dell’estensore dei sonetti, ma è un abisso che va a coincidere con una voragine così profonda da tramutarsi in inferno, popolata di demoni e affollata di dannati.
Qui il profondo abisso, – In so profound abysm I throw all care/ Of others’ voices, – vale per disinteresse, quale il luogo dove vengono gettate le attenzioni per le persone che non siano oggetto d’amore. E’ un luogo che si trova in basso, tanto da giustificare il termine throw (parallelo e opposto al dive del Riccardo III) e che ci s’immagina ribollente di ogni genere di disaffezioni o disattenzioni. In quel luogo coabitano gli amori dimenticati, quelli immeritevoli, quelli che delusero perché non risolti o solo perché neppure mai vissuti.
Al contrario, nella Tempesta, consequenzialmente al tono crepuscolare del testo, darkness colora di buio il passato. Quel che è accaduto prima che Prospero e Miranda raggiungessero l’isola è avvolto nel darkness più impenetrabile che neppure le arti del mago riescono a rischiarare. E qui occorre aiutarsi con corde, con risalite (o ridiscese) assistite, seguendo lampi di ricordi che, sempre più lontani, ci conducono all’origine, alla prima immagine che impressa sulla retina è finita nell’antro segreto della memoria e lì ha trovato la sua sede definitiva, proprio nel recesso più nascosto che neppure sappiamo di possedere sino a quando, in queste ricognizioni, appare improvviso il sentiero che conduce ad esso; la strada del primo ricordo, della prima luce che illumina la darkness shakespeariana. Prospero sta provando l’animo di sua figlia Miranda. Lei è vissuta in un isola deserta; degli esseri umani ha conosciuto solo il padre, il selvaggio Calibano e la strega. Ora che la tempesta condurrà nell’isola gli antichi nemici di Prospero e il futuro sposo della ragazza, il mago cerca di sondare le memorie della figlia; quanto ricorda dei giorni in cui appena bambina (di tre anni, dice il testo) viveva a Milano, ducato del padre ed era accudita e amata.
“What seest thou else/ In the dark backward and abysm of time?”
Miranda riconosce la sua limitatezza anche se alcuni brandelli del passato riemergono. E anche il marinaio affogato, Those were pearls that were his eyes. E la partita di scacchi tra Ferdinando e Miranda, riscritta e ripensata come lo sguardo perlaceo del marinaio, in questo appena trascorso XX secolo. Ma tu vedi, sono macerie. Come le consideri, da qualsiasi punto di vista – saggio, memoir, narrazione, o qualsiasi altro modo di osservarle – sono macerie. Ora, mi domando, se tutto è così lontano e sfatto e sul punto di andare in frantumi e lo sforzo che si compie è quello di conservarlo – non creare, soltanto conservare e mantenere memoria – non accade che anch’io partecipi di questo sfaldarsi? Che vada in malora anch’io? Malora. Rifletto su questa parola. Semplicemente vuol dire tempo malvagio, storto, negativo. Sostituisci una vocale, ne aggiungi una e hai Malaria. La perfezione sarebbe per entrambe frantumare le parole e inserire un apostrofo: Mal’ora; Mal’aria. Ovviamente sarebbe un errore. Come coloro che scrivono qual’è, qual’era. L’elisione non contempla l’apostrofo. Altrimenti non sarebbe elisione. Elidere vuol dire tagliare, ridurre. Qui la precisione è sia nell’aggettivo che nel sostantivo ‘mal ora’; termini separati nettamente ma che accostati danno l’idea di quel che si sta vivendo: una mala ora, un brutto momento.
Pearl – To morrow – Mal ora
Filippo Tuena