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Flaminia Cruciani, Lezioni di immortalità

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Se il lavoro del poeta è scuotere il cielo aspettando che qualche frammento cada, il lavoro dell’archeologo è scuotere la terra, senza imbarazzo del cosmo, aspettando che qualche frammento di cielo appaia”. Il teorema alla base di “Lezioni di immortalità” di Flaminia Cruciani, poetessa ed archeologa romana, è tutto nello splendido passaggio riportato nella quarta di copertina; ma il succo vero di questo libro “sui generis”, pubblicato da Mondadori nella collana “Strade blu”, risiede nel doppio binario lungo il quale si muove. “Lezioni di

Ebla

immortalità” è una chimera. Un libro di memorie scritto da una poetessa: memorie di per sé non comuni, che si svolgono in uno scenario ai confini con la fantasia, le rovine dell’antichissima città di Ebla in Siria (riportate alla luce da una equipe italiana guidata dal professore Paolo Matthiae tra il 1964 e il 2011); memorie rese ancor più straordinarie da una prosa originale, accorata, variopinta e sussultante. Poesia in traballanti catene, si potrebbe definire, piegata alle regole della prosa senza rinunciare alla dolcezza e al tumulto che abitano l’anima dell’autrice. L’archeologia è il fulcro del racconto: passione precoce, ispirata alla piccola Flaminia dagli scavi etruschi di Gravisca, alimentata dal

Gravisca

mito cinematografico di Indiana Jones, rafforzata dal confronto con le asprezze del percorso universitario, alimentata da mentori straordinari e finalmente messa alla prova nel deserto siriano, nel piccolo villaggio di Mardikh, avamposto verso gli scavi di Ebla, per anni meta delle personalissime vacanze estive della poetessa-archeologa, tra sabbie roventi e cieli assoluti e gesti vergini di un popolo spartano, “gesti di carne e sangue presi in prestito all’eternità”. L’attività archeologica è descritta nei suoi scenari – il “tell”, la collina artificiale formata dall’accumulo di rovine e insediamenti sovrapposti nel tempo – e nei suoi rituali: le tecniche di scavo, il riconoscimento degli “strati”, la stesura del diario di scavo e quella, affascinante, delle ceramiche, veri e propri “fossili guida” dei viaggiatori del tempo. Ancora, l’archeologia è esaltata nel suo compito delicato e crudele: lo scavo è irreversibile; ogni archeologo legge il suo manoscritto distruggendolo, rinviene frammenti, interpreta tracce alterando per sempre un equilibrio, ma fornisce a quei frammenti, a quelle tracce, l’unica occasione di riacquistare vita e voce. Infine l’archeologia è “professata” nel suo valore simbolico e filosofico: un rivolgersi verso il basso, contro la natura che tende a salire e la logica imperante della “scalata sociale”, quasi secondo un principio di “saggezza orientale”, in risposta a un impulso di raccoglimento mistico, di estraniamento dalla realtà apparente e di trasferimento nell’altrove dell’intimità. La narrazione è scandita da una galleria di figure emblematiche: il capo archeologo Paolo Matthiae che fuma la sua pipa in radica di noce, gli occhi azzurri e il pensiero costantemente infisso in un cuneo temporale tra il III e il II millennio a. C.; l’operaio Abd ar-Raziq, amante delle scarpe italiane, rimasto vedovo e risposatosi con la “scimmia”, legato alla morte da una pacifica accettazione come a un segno di Allah; lo “sciamano” Shaykh, età immemorabile e tratti biblici, messo a guardia della terra di riporto per via del cuore “speciale”, debolissimo e puro come un diamante; la bellissima Zakie, un’altra luna in terra confinata nel villaggio, tesoro che solo gli occhi del marito e qualche fortunato estemporaneo spettatore possono contemplare. Tutto il libro si muove in un labirinto di dettagli concreti e paesaggi dell’anima… La sveglia alle cinque, il tè bollente, le Clarks calzate da tutta la missione italiana (perché le suole lisce non lasciano segni sul terreno di scavo), le keffiyah arrotolate sulla testa a mo’ di turbante si incastrano con la visione delle collinette degli scavi sensuali come seni nel deserto, con le oasi che sembrano topazi incastonati nella sabbia, col caldo che monta e discende in una consistente escursione termica, con la luce calda e rosata al tramonto e invece bianca e accecante al culmine del giorno, coi miraggi – famigerati, mai davvero creduti e ora perfettamente credibili – che in quel bianco si delineano con facilità impressionante. Poco a poco, capitolo dopo capitolo (ognuno col suo illuminante esergo poetico), il labirinto diventa mosaico. Le memorie incantate predispongono uno stato d’animo, l’archeologia allarga e approfondisce la visione “quotidiana” del lettore: è strumento che serve all’autrice per costruire un universo poetico – intricata, a volte tumultuosa miscela di visibile e invisibile – attraverso un animo profondamente poetico. “Lezioni di immortalità” non è solo, in sé, un

Flaminia Cruciani

reportage archeologico: un modo per far rivivere nella sua purezza un pezzo di mondo sfregiato dalla guerra e dalla follia umana; è soprattutto una celebrazione della memoria “emotiva”, la memoria umana senza supporti esterni, dell’intuizione e dell’immaginazione (tanto essenziali nell’archeologia) che sono a volte l’unico strumento per riscattare tempi vecchissimi e farli di nuovo giovani attraverso un “atto poetico”, dell’estasi di conoscenza, di passione, che ci eleva sopra il soffio delle nostre vite, attraverso confini spaziali e temporali sempre più ampi, fino all’assoluto del mito umano.

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