Dalle parti di Orasso, in Val Cannobina, c’è un’osteria dove raccontavano dei tempi passati e dove campeggia il ritratto di un uomo come usava una volta. L’ artigliere Carlo Alberto Mussini, dritto come un fuso, lo sguardo che punge e I baffi all’insù: il Carlino dell’osteria, come lo chiamavano e come è tuttora ricordato. Uno che tribolò molto in vita ma che ebbe funerali memorabili: di prima classe e con la banda di Cannobio in testa! Chi poteva immaginarselo? Che poi fosse il curato di Falmenta a chiudergli gli occhi, nessuno l’avrebbe scommesso, conoscendo quei due!
Ne aveva passate tante il Carlino. Troppe! Dalla spagnola, la vedovanza. Della figlia che non s’ era più vista dopo “una disgrazia”, Edvige. Edvige anche lei “disgraziata” e un ragazzo da crescere: il marito “uccel di bosco”, all’ estero o, qualcuno diceva, in fondo al lago, giacchè il bambino non gli somigliava. Per non parlare delle guerre. Quella del 15 dalla quale il Carlino era ritornato “tisico”. Quella del ’40: fascisti, tedeschi e partigiani a bazzicare per l’osteria: a farne le spese Edvige, il suo unico bene. Figurarsi, a lui non garbava essere sulla bocca di tutti. E invece? Prima la figlia, poi la nipote! E per concludere in gloria, un demonio di curato a benedire una sposa già incinta di chissà chi. Il Carlino si era chiuso e ingobbito: non sapeva darsi pace perché aveva le sue idee in fatto di donne, di curati, di onestà.
Forse, col tempo, certe ferite potevano sanarsi. Il bambino cresceva bene, Edvige lavorava. Ogni tanto si scrivevano e lei tornava per le Feste: oppure d’ estate.
Quella del ’55 fu l’ultima.
Il Carlino ebbe per tutto luglio Edvige e il pronipote: che lo chiamava nonno. Mentre il bambino sgambettava e scopriva la novità del latte fresco che nonno Carlino sapeva far zampillare così bene dalle tettine delle capre e glielo strizzava in bocca quel latte tanto più buono di quello di città, il vecchio ritrovava la voglia di ridere e di tenere ritta la figura. Durò fin che non furono partiti. Poi venne un temporale e quando spiovve, tirò la tramontana: l’aria rinfrescò e il sole non fu più caldo come prima. Come le giornate si accorciavano le lettere che Edvige riceveva dal nonno. In quelle righe incerte, di certo figuravano solo notizie sul volgere della stagione o di coscritti passati a miglior vita.
Quando per I morti Edvige capitò all’ osteria, era preparata: smagrito, senza il toscano in bocca, perso il gusto del vino, la forza soltanto di accendere il fuoco. Non ci fu bisogno del dottore: l’ulcera si era fatta maligna. Che il nonno soffrisse di stomaco Edvige lo sapeva fin da bambina. Quando era in vena piaceva al Carlino parlare della guerra del ’15: la vicenda che raccontava con particolari sempre nuovi e con molti bicchieri di quello buono mai vuoti e mai pieni, teneva desti gli amici e la bocca della nipote aperta. La prima volta che seppe di avere uno stomaco fu nel ’17 al tempo di Caporetto. Dopo tre anni di cimici non gli era parso vero di gettare il fucile alle ortiche: che poteva fare lui solo, contro migliaia di “tognini” che anziché scendere dalla montagna, venivano su come lepri e dalla parte degli italiani? Nient’altro poteva fare l’artigliere Mussini Alberto Carlo di quello che facevano gli altri: gambe in spalla e che Dio te la mandi buona! Dio quella notte, dov’ era? La corsa degli sbandati finì tra le braccia di gente rude e che parlava difficile: I carabinieri. Come gli altri il Carlino fu messo in fila: nessuno sapeva il perché.
Quando corse la voce, già uno su dieci cadeva fucilato alla schiena: decimazione, ecco la cura di quei lavativi! Uno su dieci: a chi toccherà? E se sbagliano il conto, tu che dirai Artigliere Mussini? Mentre bestemmiava e pregava, avvertì una fitta colpirlo davanti non alla schiena dove lui si aspettava, il disertore! Dopo la prima, altre fitte, una peggio dell’altra. Poi avvertì una gran debolezza, lumini negli occhi e dolciastro in bocca. Cadde come un birillo e venne dato per morto, da non valere il prezzo di una pallottola: che venne data ad un altro.
Siccome c’è un Dio per ognuno, si ritrovò convalescente in ospedale a Treviso, dove un tenentino di sanità lo diede per tisico e lo scrisse tra I congedandi. A Natale rivide la sua famiglia. Ma era di parola e non intese ragioni. Nonostante la neve e le pochissime forze, si trascinò a sciogliere il voto: la croce di guerra ai piedi della Madonna del monastero di Oropa.
Gli tornarono l’appetito e la voglia di vivere: una figlia da crescere e l’osteria da mandare avanti non erano cose da poco. Così non badava a certi dolorini, certi acidi, quel po’ di nervoso che gli capitava quando c’era la burrasca, se indulgeva con il toscano, se, in primis, c’ erano le stagioni di mezzo. Prevaleva un destino: bene a Natale non a Pasqua! Ogni anno così : per la settimana di Passione, non gli andava bene niente e non digeriva niente che non fosse latte. Fu appunto il latte a salvarlo quando, nel gennaio del ’20, dopo aver mietuto a Cannobio, la spagnola bussò all’ osteria: il Carlino ebbe una febbre lunghissima e nel delirio cercava la moglie che, stroncata in ventiquattro ore, già riposava sotto una croce.
Seppe di avere un buco nello stomaco solo nel 25, quando il suo nome fu sulla bocca della gente per via della figlia che aveva sbagliato con un finanziere. Così, almeno, diceva la gente. Lui che era il padre, il nome del farabutto non lo seppe mai di preciso. Né gliene importò. Dato che il farabutto era di via e fatto il colpo, era scomparso, lasciando una minorenne in attesa e il Carlino sulla bocca della gente. Se allora un padre disonorato, non massacrò di botte la figlia, fu merito di un prete. Ma che fosse un coscritto vestito da prete ad intercedere per la pecorella ingannata, fu per il Carlino fiele dopo la croce: come perdonare il curato di Falmenta d’avergli detto cose da prete e non da coscritto? Da allora lo cancellò dal suo libro. Quando il Carlino seppe che sua figlia era in attesa e che certe forme e certi disturbi avevano un nome preciso, era il marzo del ’25 e già da qualche settimana avvertiva dolori allo stomaco. Diradò vino e toscani a profitto del latte e parve star meglio. Fin quando non vennero le parole della gente e il curato con la bella notizia.
Dopo che ebbe sputato acidi e bile tutta la notte, il pover uomo affrontò la disgrazia da uomo: chiuse l’ osteria e riparò a Cannobio presso il cognato. Siccome il parto andava per le lunghe e la levatrice trafficava senza concludere, venne il dottore a mettere al mondo Edvige. Nonostante la circostanza disonorevole, il nonno, ai primi vagiti, dimenticò l’offesa e volle brindare: un bicchiere di quello buono alla faccia della gente e del curato! Ma quel nettare gli diede una mazzata che quasi lo portò all’ altro mondo. Il dottore che era vecchio, specializzato e curioso, gli fece tante domande, lo visitò per bene e sentenziò: ulcera, come dire un buco nello stomaco, attenti al mangiare, al bere, al fumare! Il Carlino da allora fece del suo meglio, tranne che per il Toscano! Quanto alla tavola d’ inverno e al bicchiere d’ estate, lasciamo perdere. Tornò quello di prima ma con le guance incavate. Solo per Pasqua del 33 ebbe bruciori allo stomaco per un contrasto con il Curato inerente la vigna del prete. Causa la pioggia d’ottobre, il raccolto dell’uva era stato un disastro e il vino nuovo lo stesso. Allora il curato cominciò a mormorare che l’osteria teneva per sé il vino buono e pagava l’affitto con il torchiato! Tanto disse che l’affittuario sbottò in mezzo a tutti sta maledicendo el Pret. Da quella Pasqua ci fu uno di meno alla messa e uno di più davanti alla chiesa, con il cappello in testa: ad aspettare che uscisse Edvige dalle funzioni.
Edvige era tutto per il Carlino: l’ oggi e il domani. Doveva studiare e farsi avanti. Così il nonno voleva e così fu: maestra di scuola. Quando Edvige impettita gli consegnò il diploma, fresco di ceralacca, il Carlino stava compitando il giornale, dove un titolone diceva che il cavalier Mussolini s’ era dimesso. Come dire: forse finiva la guerra. La nipote maestra, il fascio in ginocchio, lo stomaco buono per via dell’ estate misero il Carlino nell’ euforia: prese una ciucca da comunione ma non ebbe fastidi.
Stette bene anche dopo: anche quando vennero l’ 8 Settembre e la liberazione di Mussolini.
Durò fino a novembre. Poi ricomparvero in valle tedeschi e fascisti. Poi vennero i partigiani a spadroneggiargli in casa. Siccome era un socialista, che poteva farci, se non mandar giù ? A farne le spese fu la nipote. Ancora una “disgrazia”, ancora il curato di Falmenta a mettere la parola buona. Aprile del ’45: stagione d’ ulcera per il Carlino! Siccome aveva le sue idee in fatto di donne, di curati, di onestà, dolore, vergogna, rassegnazione e se li tenne dentro a mangiargli lo stomaco.
Quando nel novembre del ’55 ebbe davanti il nonno smagrito, giallo e senza il toscano in bocca, Edvige capì: l’ulcera si era fatta maligna. Nascose la pena sotto il belletto e si diede a fare il suo dovere. Tanto, tanto brodo di gallina e tanti tuorli d’ uovo. Di nascosto passato di vitello. Per San Martino ci fu una schiarita e il nonno chiese un sigaro. Durò poco: tirò da scirocco e venne la neve. Quando il Carlino disse che era venuta la sua ora, Edvige volle tenere la parte fino all’ ultimo. Mise su una faccia risentita chiedendo se non gli pesava veder piangere sua nipote: una che preparava con tutti i sacramenti e con dentro ogni ben di Dio un pranzo come prima della guerra. C’ era da festeggiare con la neve: coi primi freddi l’ ulcera passava. Magari per tornare a primavera, non sarebbe stata la prima volta. E allora? Allora l’ avrebbe portato a farsi operare a Novara, dove c’ era fior di dottori.
Fosse il bene della morte o avesse capito quanto dovesse costare alla nipote quella parte, il Carlino parve riprendersi. In quella faccia incavata gli occhi ebbero un attimo di furbizia dei vecchi tempi: quasi volesse andarsene nell’ ombra. Biascicò che l’ idea dell’ operazione non era poi male, anche lui l’ aveva pensata: da farsi comunque a primavera! Per il momento si sarebbe contentato di un toscano e di fare due parole con il curato: che non era più quel demonio di una volta, da capirlo, anche lui vecchio, un coscritto, ecco, un buon diavolo, il curato, uno da farci volentieri due parole, purché venisse subito!
Il vento alle spalle e l’urgenza nelle parole del nonno, Edvige volò alla canonica. Non ci fu bisogno di troppe parole: il curato era già pronto con il necessario a portata di mano. Nonostante l’età e il vento contro, arrivò per primo all’ osteria. Infilò le scale ma ricomparve da lì a poco. Fece un mezzo sorriso, tossicchiò, chiese il caffè nero e che fosse forte; quella notte toccava a lui vegliare il Carlino.
Edvige si addormentò accanto al fuoco con il bambino in braccio: un dormiveglia interminabile ma ogni volta che apriva gli occhi nella camera del nonno la luce era accesa. Prima che albeggiasse lo scirocco calò e la neve venne giù a falde grosse. Poi, quasi di colpo, cessò. Quando Edvige si destò, fuori c’era già luce. Il curato al tavolo stava scrivendo. Senza alzare lo sguardo, diede la notizia: il Carlino se n’era andato senza più dolori, in pace con gli amici e con Dio. Era stato un amico, un onesto, nato e morto povero: per Dio, ora l’amico che gli aveva chiuso gli occhi, ora quell’amico, per Dio, stava scrivendo l’annuncio, che tutti sapessero chi era il Carlino dell’Osteria e tutti venissero a dargli il saluto che meritava. Un funerale di prima classe e con la banda di Cannobio in testa. Edvige, facendo piano per non svegliare il bambino, s’appressò e lesse e rilesse l’annuncio. Solo allora cominciò a piangere. Ma fece piano per non svegliare il bambino.
“UN AMICO, UN ONESTO, UNO DELLA NOSTRA TERRA, SOLDATO PER DOVERE MA SEMPRE NEL CUORE PACIFICO, SOCIALISTA DI PULITA MILITANZA, NATO POVERO, POVERO VISSUTO, RICCO DEGLI AFFETTI DATI E RICEVUTI,
CARLO ALBERTO MUSSINI (vulgo EL CARLIN)
HA CESSATO DI SOFFRIRE. IN PACE CON DIO E CON GLI UOMINI, RIPOSI NELLA PACE DEI NOSTRI CAMPI COLUI CHE QUIVI CONDUSSE VITA LABORIOSA
Il curato alzò gli occhi verso Edvige per chiederne l’approvazione. Avutala, le disse di salire per un ultimo saluto. Pareva dormire: non fosse stato che per i ceri, il rosario tra le dita, il bavaglio sotto il mento, l’abito della festa e la cravatta rossa.
Dalla finestra entrava aria pulita: fuori era tutto bianco e cominciava a tirare di tramontana.
E fu così che il Carlino dell’ osteria ebbe un funerale di prima classe e con la banda di Cannobio in testa. Portato a braccia. Dietro la nipote con il bambino. Discosti di due file, gli altri. Tanti che la bara era già sul sagrato quando gli ultimi muovevano dall’ osteria. Tutto si svolse senza intoppi tranne che per le bandiere. Quella tricolore, un’ altra tricolore ma con ancora lo stemma del re, i gagliardetti del ’15 e del ’45 e la bandiera rossa della federazione socialista. Benedetta la bara davanti alla chiesa, fu spalancato il portone. Entrarono tutti meno quelli delle bandiere. Il curato tornò fuori chiedendo il perchè. Ebbe una risposta che gli fece capire che il Carlino, anche da morto, poteva dargli ancora problemi: perché era stato benvoluto da tutti, al di là dei colori. Quello che reggeva il gagliardetto del ’15 disse la sua anche a nome degli altri: o entravano in chiesa tutte le bandiere, la rossa compresa, o nessuna. Al curato la responsabilità di lasciare la bara nuda e sguarnita in quello spazio vuoto davanti all’ altare. Il curato convenne che per il Carlino era disposto a chiudere un occhio. Ma fece una cosa che al Carlino sarebbe piaciuta: a conferma che, se con gli anni s’ era fatto un buon diavolo, in gioventù era pur stato demonio. Chiuse il portone e lasciò aperta solo la porticina. Così che i gagliardetti e bandiere, quella rossa in primis, dovettero inchinarsi prima d’ entrare nella casa di Dio.
Francesca Mezzadri